Cultura
Hanukkah a Casale Monferrato, quando l’arte illumina il mondo

Intervista a Daria Carmi, responsabile del Musei dei Lumi, per scoprire che visitare la cittadina piemontese in questi giorni permette di scoprire due mostre decisamente interessanti

Fare luce. Nel senso di accenderne una, ma anche in quello più esteso di illuminare, rendere visibile, comprendere. Anche con l’aiuto dell’arte. Nel cuore della festa di Chanukkah abbiamo parlato con Daria Carmi, responsabile del Museo dei Lumi di Casale Monferrato che domenica 10 alle 16 presenta la nuova lampada che andrà ad arricchire la serie di chanunkkiot che compongono la sua collezione. Tutte opere diversissime tra loro, creazioni di artisti di fama anche internazionale che hanno contribuito con le loro personalissime interpretazioni della lampada rituale ad arricchire un museo straordinario. Tra questi sono molti anche i non ebrei come Luca Vitone, artista e docente di scultura presso la NABA (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano. Oltre a presentare la lampada che ha donato al museo, ispirata a un pianoforte giocattolo e intitolata Ottava in nona, Vitone sarà anche protagonista presso il Complesso Ebraico di Casale Monferrato della personale Cara Casale, visitabile fino al 4 febbraio.

Bozzetto dell’opera di Luca Vitone

Che cosa significa coinvolgere il mondo non ebraico?
Quella di Casale Monferrato è una comunità ebraica molto piccola che però ha un passato importante, anche per quanto riguarda lo sviluppo del territorio. Oggi questa eredità è pesante perché ricade su pochi, ma nonostante questo non siamo disposti a dismettere il nostro ruolo. Desideriamo continuare a fare un lavoro di qualità che comprende il dialogo con interlocutori che non appartengono al mondo ebraico quali le forze del territorio, la società civile, le associazioni, le istituzioni.

Perché un museo?
Negli anni Novanta la nostra comunità ebraica come tante altre si stava confrontando con numeri sempre più esigui, al pari degli ebrei del resto d’Italia. La festa di Chanukkah è stata scelta proprio come simbolo della stessa volontà di esistere del popolo ebraico. Basta pensare alle sue origini. Quando i Maccabei hanno ridedicato il Tempio nonostante non ci fosse olio a sufficienza, nell’accendere comunque il lume hanno riposto a una domanda. Avrebbero potuto prendere tempo, lavorare alla produzione di altro olio, ma si sono invece concentrati sull’urgenza, sul bisogno di ricostruire subito. È stata la scelta di esistere, di riaffermare la comunità. E questo è il simbolo della nostra collezione.

Una collezione che affronta il tema del rito con il linguaggio dell’arte…
Il museo deve la sua nascita alla riflessione di mio padre, Elio Carmi, con Emanuele Luzzati e Carlo Levi. Tutto partiva da una domanda: esiste un’arte ebraica? In quanto ebrei, non siamo abituati ad avere riferimenti formali, anche per la nostra cultura iconoclasta, ma a interrogarsi  erano comunque artisti e designer, abituati a lavorare con quei mezzi e con questi decisi a dare delle risposte. Mio padre aveva già disegnato una lampada per uso familiare, poi è arrivato Lele Luzzati con una lampada molto diversa, seguito da Antonio Recalcati con una ancora diversa. Da lì l’oggetto si è moltiplicato, altri artisti sono stati invitati a interpretarlo, rappresentando così una diversa percezione della festa e della identità ebraica. Si tratta di una collezione che si è formata a partire dai minimi comuni denominatori, dagli elementi di similitudine ma anche sul valore delle differenze.

Come e perché avete coinvolto anche artisti non ebrei?
Essendoci pochi ebrei in Italia e fra questi ancor meno artisti, in parte sempre per la questione dell’iconoclastia, questa collezione per sua natura ha rappresentato fin dall’inizio un elemento di dialogo. Abbiamo raccolto opere di artisti provenienti dalle più diverse culture, tra cui ad esempio quella di un artista musulmano, Ali Hassoun, costruendo la collezione attorno alle persone che avevano un rapporto con noi. Oggi ciascuna lampada racconta una storia diversa, in un dialogo che è sia interno alla sua creazione, sia rivolto all’esterno, con la possibilità di costruire dei percorsi.

Per esempio?
Due anni fa con il Museo abbiamo esposto a Innsbruck, in Austria, una città dove ogni traccia ebraica è stata cancellata dalla Shoah. È stato un modo per colmare un vuoto, un tentativo di coprire l’assenza di un patrimonio che era andato distrutto pur agendo attraverso il contemporaneo. Noi cerchiamo di creare un ponte di dialogo tra persone ebree e non ebree, tra artisti e non artisti, tra territori, con la società civile alla quale portiamo i nostri contenuti.

Contenuti che comprendono anche la pace…
Naturalmente il nostro è un ponte di pace. La luce è simbolo della possibilità del confronto, del dialogo, della comprensione. Comprendere, prendere con sé, significa capire qualcosa, accoglierla anche se non è uguale alla mia, portarla con me. Se sono capace di capire le differenze e i punti di vista degli altri, anche gli altri saranno in grado di accogliere i miei punti di vista. Non in maniera conflittuale ma in forma arricchente.

Passando alla mostra di oggi. Perché Luca Vitone?
Luca Vitone è un artista che noi conosciamo a livello locale dal 2013. Essendosi sempre interessato alla storia individuale come a quella con la esse maiuscola, Vitone si è avvicinato al nostro territorio per la vicenda Eternit, tema di un’opera presentata alla Biennale di Venezia di quell’anno per il Padiglione Italia. In occasione delle sue diverse visite a Casale ha conosciuto la nostra comunità ebraica e quindi il Museo. Così l’anno scorso gli abbiamo chiesto di aggiungere una sua lampada alla collezione. Domenica la presenteremo insieme a una sua personale composta in parte da opere sulla spiritualità, ebraica e non, e in parte da un percorso legato alla fabbrica Eternit. La lampada nasce da quelli che sono stati gli elementi di contatto tra Luca Vitone e il mondo ebraico, quindi anche i grandi autori della musica classica, la sua percezione di che cosa rende particolare la nostra cultura e il fatto che il canto sia un elemento identitario, che viene trasmesso a livello familiare creando senso di appartenenza.

Come la stessa accensione dei lumi?
Proprio così. Questa identità è da un lato familiare e da un lato pubblica. Mettendoli alla finestra, i lumi di Chanukkah diventano un atto pubblico. Importante è il fatto che questo rito dell’accensione non sia solo legato alla funzione in sinagoga, ai rabbini, quindi alle guide spirituali, ma sia qualcosa che riguarda anche le famiglie, i bambini…

A proposito di dimensione pubblica. Che cosa farete a Casale?
Noi l’accensione pubblica la facciamo ormai da circa 20 anni invitando le istituzioni sia laiche sia religiose. Credo che sia uno dei pochissimi esempi in cui viene fatto qualcosa con il Coreis, la comunità religiosa islamica italiana. Per noi è ormai una tradizione, ma mi rendo conto che questo sia uno dei pochi luoghi in cui ciò possa avvenire proprio perché abbiamo costruito questo rapporto nel tempo, senza forzature. A Casale domenica ci saranno sicuramente le rappresentanze del mondo cristiano cattolico, poi gli evangelici, i protestanti, gli avventisti del settimo giorno, gli ortodossi greci, i musulmani della moschea del Coreis, che di solito vengono da Milano, i buddisti e le istituzioni laiche.

Avete prestato i vostri lumi a diversi enti museali, tra cui in passato il Musée d’Art et d’Histoire du Judaïsme di Parigi. In quali altri luoghi avete esposto?
Negli ultimi anni c’è stata Matera, Capitale delle Cultura nel 2019, poi, dopo la sosta forzata del Covid, siamo stati nel 2021 al Tyrolean Museum di Innsbruck. Quest’anno non ci muoviamo, è difficile parlare di questi temi così come costruire progetti…

Ora più che mai ci sarebbe bisogno di fare luce…
Diciamo che il tempo è stato troppo poco per dare una risposta adeguata. Quello che abbiamo fatto a Casale è stato ospitare la Biennale di Gerusalemme, progetto di arte contemporanea che come molte biennali si basa su rappresentanze nazionali. Quando il 7 ottobre ha costretto gli organizzatori a sospendere tutto, una parte delle opere erano già state spedite in Israele, una parte non ancora. Israele ha quindi chiesto al mondo di ospitare le mostre altrove, dove possibile. Noi di Casale siamo stati gli unici, insieme a New York e a Buenos Aires, a essere riusciti a organizzare una mostra, che abbiamo disallestito domenica scorsa, incastrandola nel nostro programma. Nelle tre sedi sono state esposte le opere che non erano ancora state mandate in Israele accanto a stampe o riproduzioni fotografiche di quelle già spedite. Alcuni tentativi da parte del mondo della cultura ci sono dunque stati, ma il tempo non è stato di aiuto perché troppo poco, e gli spazi perlopiù già occupati.

Concludiamo con una speranza
Mi auguro che ci possano essere dei momenti di relazione e di costruzione nel prossimo futuro. Serve uno sguardo aperto perché questo accada, con la volontà, come nella nostra collezione, di lavorare sui punti di contatto e non sulle differenze. Bisognerebbe capire, partire dagli elementi comuni che sono poi anche quelli del mondo che noi speriamo di poter costruire nel futuro, un mondo democratico, rispettoso dei diritti universali, della donna… Mi riferisco a tutte le parti coinvolte. Che non sono certo solo due. La speranza è di oltrepassare gli schieramenti, la polarizzazione banalizza, non aiuta nessuno, è disumanizzante rispetto alla complessità, al dolore, alle ferite che questa situazione porta in ognuno. In questo penso che l’arte visiva abbia dimostrato nel tempo di poter essere uno spazio di incontro e dialogo possibile, facendosi ambasciatrice di contaminazioni, di momenti di confronto positivo e aperto. L’arte è sempre una speranza. O almeno, lo è quella che intende esserlo, che viene creata in maniera responsabile rispetto al mondo, che parla dello spirito del tempo ma anche del mondo che vuole costruire, del futuro. Un’arte anche di sperimentazione, un luogo concesso dalla stessa società delegato a essere spunto sperimentale di dialogo e di incontro. È qui che c’è una possibilità da sfruttare, anche nel futuro e anche a livello internazionale.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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