Cultura
Perché guardare “Hunters”, la serie sui cacciatori di nazisti

Analisi della serie targata Amazon

La aspettavo da mesi, pregustandone l’uscita. Eppure guardando la serie “Hunters” su Amazon ho provato stati d’animo contrastanti: mi sono incuriosita con il trailer, mi sono appassionata al primo episodio ma poi è successo qualcosa che mi ha infastidito e ha spento il mio entusiasmo. “Hunters”, ambientato a New York nel 1977, come dice il titolo, parla di cacciatori, in questo caso di nazisti, che invece di cercare giustizia nelle aule dei tribunali la perseguono nelle strade con vendette private. Il ricordo va subito a “Inglorious bastards” di Quentin Tarantino, a cui sicuramente la serie è ispirata. L’inizio stesso è un chiaro omaggio al genere pulp: un nazista in incognito viene smascherato da una sopravvissuta e fa una strage a bordo piscina durante un barbecue domenicale massacrando anche la propria famiglia. Al di là della violenza platealmente esibita, il richiamo a Tarantino è anche dato dal concetto base che viene ribadito puntata dopo puntata; le vittime non si adattano al ruolo deciso per loro dalla Storia, gli oppressi decidono di essere padroni del loro destino. In “Inglorious bastards” i ribelli ebrei capitanati da Brad Pitt scalpavano i loro aguzzini, incidevano svastiche sulla loro fronte e li bruciavano vivi chiudendoli in un cinema. Anche qui non mancano esecuzioni, accoltellamenti, esplosioni e sparatorie. Tarantino aveva definito la sua opera “uno spaghetti western ambientato nella seconda guerra mondiale”; non a caso il sottotitolo che aveva scelto era: “C’era una volta la Francia occupata dai Nazisti”, epigrafe che riecheggia il suo film più recente “C’era una volta a… Hollywood”, incentrato sulla notte dell’eccidio di Cielo Drive, quella tra l’8 e il 9 agosto del 1969. L’unica differenza rispetto alla cronaca è che nella pellicola la vicenda ha un esito diverso, Sharon Tate non viene uccisa e sono i seguaci di Manson a fare una bruttissima fine. “C’era una volta”, perché si tratta, appunto, di favole, non si sta parlando della realtà ma di un “come avrebbe potuto essere”.
In “Hunters” invece c’è una pretesa di verosimiglianza storica; si allude al fatto, autentico, che il governo americano a fine guerra nascose scienziati nazisti dando loro nuove identità. Si cita Simon Wiesenthal, ci sono flash back che ricostruiscono episodi accaduti nei lager. Quali sono quindi le intenzioni del creatore della serie che sostiene che la sua sceneggiatura si pone a metà tra il già citato film di Tarantino e “Munich”? L’autore è David Weil, nipote di una sopravvissuta a Auschwitz; dice di essere stato motivato proprio dai suoi ricordi e di averle voluto fare un omaggio, darle un risarcimento morale. In effetti si ha la sensazione che l’atmosfera generale sia frutto dell’immaginazione di un bambino che ha ascoltato i racconti della nonna sulla Shoah e li ha poi elaborati a modo suo; un po’ come avviene in “Vedi alla voce amore” di David Grossman al piccolo Momik che prova a immaginare cosa sia la belva nazista di cui parlano sottovoce i genitori.
Anche i personaggi sono ispirati al mondo infantile dei fumetti, sono dei super eroi ognuno con i suoi super poteri e una forte caratterizzazione iconica:  Meyer Offerman, interpretato da Al Pacino, che nella sua casa tiene l’archivio di tutti i nazisti in circolazione, costituisce la memoria del gruppo, Mindy e Murray, sopravvissuti che hanno perso un figlio nel lager, sono diventati esperti in esplosioni, l’afroamericana è scontrosa, l’attore è un camaleonte capace di mimetizzarsi, la suora spietata in passato è stata costretta a convertirsi al cristianesimo in un collegio svizzero durante la guerra. E naturalmente c’è il protagonista, Jonah, l’alter ego dell’autore, il ragazzo deciso a rendere giustizia alla nonna assassinata, combattuto se assecondare l’istinto della vendetta o l’insegnamento della Torah. 
Non è la prima volta che i supereroi vengono usati per raccontare la Shoah. Basti pensare al bellissimo romanzo di Michael Chabon, “Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay” dove una coppia di fumettisti ebrei, uno di Brooklyn e l’altro esule cecoslovacco, nell’America degli anni ’40 inventano il personaggio dell’Escapista che trionfa sul male e riesce a sfuggire a ogni pericolo, come un novello Houdini. Uno stratagemma della fantasia, escogitato per reagire al senso di impotenza e alla rabbia per quello che sta accadendo davvero in Europa. Oppure all’uso del fumetto in “Maus” di Art Spiegelman, utilizzato per raccontare un’esperienza autobiografica, la storia del padre. Ma questi due esempi partono da motivazioni chiare, forti, emotive che giustificano il ricorso alla trasfigurazione fantastica, mentre in “Hunters” le intenzioni restano confuse, i personaggi sono appena abbozzati e non arrivano a incidere nella trama o a coinvolgere lo spettatore. Ci si ferma alla superficie, allo stereotipo, spesso al cliché.
Anche il presunto ebraismo della serie risulta artificioso, sembra costruito a tavolino: i continui witz, le citazioni sagge del Talmud, i nomignoli in yiddish, l’ostentato accento askenazita di Al Pacino lasciano un retrogusto di leziosità, di maniera. Per non parlare dei flash back sui lager che banalizzano la Storia riportando episodi caricaturali inventati di sana pianta, come la partita a scacchi realizzata con detenuti al posto delle pedine, gare di canto che finiscono con l’eliminazione degli stonati o l’orchestra da campo che decide di suonare Hava nagila hava per ribellarsi a Wagner. C’era bisogno di inventare tutti questi fatti grotteschi, ingigantendo l’orrore? Non era già abbastanza orribile la realtà? Perché creare nuove atrocità inverosimili, facendo un favore ai negazionisti? Alla fine dei dieci episodi, dopo bombe, uccisioni e smembramenti con la sega elettrica, ci si chiede quale sia il messaggio della serie. Che bisogna uccidere i nazisti? Che dovrebbero essere gli ebrei a farlo? Peccato che la vendetta non sia un valore presente in alcun modo nella Torah, a cominciare dal famigerato “occhio per occhio” che allude a un risarcimento economico per riparare a un’offesa, proprio per evitare la violenza fisica, o al Libro di Esther, con l’uccisione di Haman di cui tutti si rallegrano, che però è un riadattamento di un mito babilonese, estraneo alla tradizione ebraica.
Il regista della serie è Jordan Peele, lo stesso di “Get out”, un film davvero inquietante in cui si immagina che una famiglia di bianchi cerchi di lobomotizzare persone di colore riducendole in schiavitù fino a quando l’ultimo fidanzato della figlia, attirato con l’inganno nella villa padronale dei futuri suoceri, si accorge del complotto e fa strage dei carnefici. Il sottotesto in queste opere quindi è che le vittime, sia che si tratti di ebrei che di neri che di donne abusate, debbano reagire, ribellarsi da sole al sopruso se le istituzioni latitano, unirsi e prendere posizione, non restare passive davanti ai persecutori? Che si debba far fronte al razzismo, alla misoginia, all’antisemitismo ancora presente nella società, camuffato sotto un’apparenza di normalità più di quanto non si voglia credere? Può darsi.
Come è evidente la tendenza generale contemporanea, vista anche in “Jojo Rabbit”, di elaborare la Storia, la memoria, la volontà di farla diventare materia viva, creativa, personale, a costo di cambiare i fatti, strappare una risata e trasformarla in fenomeno pop. Proprio per questo “Hunters”, pur con tutti suoi limiti, va visto: per capire come l’immaginario agisce ed elabora, per verificare che cosa resta del passato nella cultura e nei miti popolari.
Perché ci avverte che quei mostri, inneggianti al potere bianco e alla supremazia, non sono così lontani nel tempo, ritornano ciclicamente. O forse non sono mai scomparsi.

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.