Cultura Cibo
I datteri nella tradizione ebraica

Per farsi un’idea del valore che la cultura ebraica ha attribuito al dattero basta ricordare quando i Salmi dicono che “Il giusto fiorirà come una palma da datteri”

C’è chi i datteri li considera giusto in questo periodo, quando gli scaffali dei supermercati traboccano di frutta secca. Poi, più nulla per altri undici mesi. Altri invece conoscono e apprezzano le incredibili virtù di questi frutti e ne fanno incetta tutto l’anno. Questione di latitudine, certo, ma anche di cultura. Se è vero infatti che i frutti della Phoenix Dactylifera crescono generosi in condizioni climatiche calde e secche e che, molto probabilmente, hanno fatto la loro prima comparsa nell’India settentrionale per poi diffondersi in tutto il Medio Oriente, è anche vero che hanno poi viaggiato un bel po’ grazie ai loro estimatori. Tra questi, gli ebrei.

Anche se oggi Israele non compare tra i primi produttori mondiali di datteri, superata da Egitto, Arabia Saudita e Iran, è un fatto che questi frutti hanno sempre abbondato sulle mense degli israeliti, mentre la pianta che li genera era impiegata per le funzioni più diverse. A differenza di altre specie vegetali, spesso soggette a equivoci e a traduzioni sbagliate, quando si tratta di datteri le fonti antiche parlano chiaro. E mentre lo storico greco Strabone riporta che i Persiani contemplavano la bellezza di 360 usi diversi della pianta e dei suoi frutti, gli ebrei possono citare la Torah, dove i datteri sono l’unica specie vegetale a comparire sia tra le sette sia tra le quattro specie. Sono citati cioè sia nell’Esodo, quando si parla dei frutti e dei cereali che gli Israeliti avrebbero trovato nella Terra Promessa, sia nell’elenco delle piante del rituale di Sukkot.

Per quanto non citati direttamente, i datteri, o meglio ancora il loro sciroppo, il dvash temarim, compaiono anche nel passo in cui si loda la terra in cui “scorre latte e miele”. A questo proposito, gli storici sono abbastanza concordi nel ritenere che il miele non fosse quello di api, piuttosto laborioso e difficile da ottenere, bensì il prodotto ottenuto spezzettando o pestando i datteri e facendoli poi bollire per ore. A conferma di questa supposizione troviamo il fatto che la Torah citi questo “miele” non meno di 55 volte.

Prima di addentrarsi nelle innumerevoli applicazioni alimentari di frutto e derivati, vale la pena di inquadrarne la diffusione storico-geografica. Alta e flessuosa, tanto da assumere il nome ebraico di tamar (dalla radice di essere elevato), la palma da dattero potrebbe essere una delle prime piante da frutto a essere stata coltivata. Persino prima, si pensa, della stessa vite. Semi di datteri risalenti a oltre 5mila anni fa sono stati rinvenuti nel cimitero reale di Ur dei Caldei, non troppo lontano dalla città di Eridu, nella Bassa Mesopotamia, lasciando supporre che questo frutto facesse già parte della dieta di Abramo e famiglia. L’avanzata del dattero da Oriente a Occidente sarebbe nel frattempo avvenuta anche per caso, grazie alle soste che i nomadi che attraversavano il deserto facevano nelle oasi e presso i pozzi. È probabile che i datteri, così nutrienti e insieme facili da trasportare grazie alla loro alta conservabilità, costituissero un importante nutrimento per i viaggiatori. Che ne sputavano i noccioli nei luoghi in cui si fermavano a mangiarli, facendone nascere nuove piante. Ci avrebbero poi pensato i Fenici, provenienti da una terra che non a caso significa in greco “terra delle palme” a seminare intenzionalmente altri alberi un po’ in tutta la regione mediterranea.

Tornando all’antica Israele, per quanto citato tra le sette specie, il dattero era comunque meno diffuso rispetto agli altri sei vegetali perché meno facile da coltivare. Ora come allora, le palme necessitano di condizioni particolari per dare frutti e, per quanto possano crescere con facilità nelle zone costiere, a causa dell’umidità di questi luoghi tendono però a non fruttificare. In compenso, c’è stato un tempo in cui Gerico era chiamata la “città delle palme da dattero” e l’area che da qui conduce al Mar di Galilea e al lago Hula era ricoperta di palme. Nel 135 d.C., durante le guerre di Giudea, i Romani avrebbero distrutto intenzionalmente il cultivar della palma della Giudea, portandola all’estinzione e a una quasi scomparsa degli alberi da dattero in tutto il paese.

Le coltivazioni di datteri sarebbero ripartite nel 1909, grazie all’impegno dei lavoratori del kibbutz Degania, sulla sponda meridionale della Galilea, mentre negli anni Settanta, nel corso di scavi presso il palazzo di Erode a Masada, sarebbe spuntato un vaso contenente antichi semi della antica specie scomparsa. Dimenticati o quasi per quattro decenni, nel 2005 tre di quei semi sarebbero stati piantati dalle ricercatrici Elaine Soloway e Sarah Sallon in occasione della festa di Tu BiShevat, il capodanno degli alberi. L’unico seme germogliato ha dato origine a una pianta che oggi è stata a buon diritto soprannominata Matusalemme, visto che con i suoi duemila anni rappresenta a tutti gli effetti la palma più vecchia della storia. Essendo una pianta maschio non ha potuto dare frutti, ma è riuscita comunque a impollinare i fiori di altre sei palme nate da altri semi antichi, portando qualche anno fa alla nascita dei primi datteri, diciamo così, millenari.

Tornando alla storia e diffusione di pianta e frutto, per farsi un’idea del valore che la cultura ebraica ha attribuito al dattero basta ricordare quando i Salmi dicono che “Il giusto fiorirà come una palma da datteri”, o quanto l’immagine della palma e dei suoi rami sia ricorrente nelle rappresentazioni artistiche antiche: dal Tempio, le cui pareti erano adornate con immagini di palme da dattero, ai Maccabei, che usavano l’albero come simbolo del loro successo militare. Inoltre, il Talmud osservava che “vedere un luvav nel proprio sogno è segno che una persona sta servendo Dio con tutto il cuore”, come dire che la palma è il simbolo della devozione di Israele a Dio.

Sempre a proposito di luvav, la radice del termine ebraico che indica la fronda chiusa deriverebbe dalla parola lev, cuore, con la quale viene indicato il punto sulla sommità della palma da cui dipartono i ciuffi di foglie e da cui i rami prendono il loro sostentamento. Secondo i cabalisti, il lulav sarebbe lo strumento utile a incanalare l’energia spirituale nei nostri cuori, da qui l’idea che il lulav rappresenti la Torah, il lev di Israele.

Passando dal sacro al profano (si fa per dire), il dattero è uno degli elementi imprescindibili della cucina mediorientale, nordafricana e sefardita. Usati sia freschi sia secchi, al naturale o trasformati in sciroppo, compaiono in piatti sia salati sia dolci. Presenti in molte preparazioni e tagine marocchine e persiane a base di pollo, manzo e agnello, sono protagonisti in particolare della dafina, lo stufato marocchino di Shabbat, che viene servito con datteri come ingrediente o guarnizione. Alcune ricette di riso preparate dai persiani per Shabbat richiedono l’utilizzo di datteri e pistacchi mescolati con altra frutta secca. Parlando di dolci, l’elenco è pressoché infinito, e va dai frollini degli ebrei di Rodi, ripieni di mandorle e datteri, alla torta persiana ranginak, che utilizza datteri ripieni di noci ricoperti da un roux dolce e uno strato di pistacchi tritati. Ci sono poi i babee bi tamr, pasticcini iracheni dal ripieno di pasta di dattero, e i menena, versione ebraica dei maamoul arabi, biscottini farciti a loro volta di frutta secca. Spostandosi in Italia, The Book of Jewish Food di Claudia Roden cita tra gli altri un dolce semplicissimo che secondo la studiosa di origini egiziane sarebbe frutto dell’antico legame tra gli ebrei di Livorno con i tunisini: la torta di datteri. Lasciati interi e crudi, questi versatili frutti possono anche essere gustati ripieni di cremoso formaggio con una spolverizzata di noci tritate o di semi di sesamo, chicchi di melagrana e un filo del loro stesso sciroppo. Rientrando in ambito rituale, i datteri sono uno dei cibi celebrati durante Tu B’Shevat e tra i componenti chiave del seder sefardita di Rosh Hashanah. Al naturale o sotto forma di sciroppo sono infine anche uno degli ingredienti del charoset pasquale, da quello iracheno, che è composto da noci tritate mescolate al silan, lo sciroppo, alle varianti turche contenenti datteri e arance macinati insieme, crudi o cotti in una pasta.

Torta di datteri

Ingredienti:

250 g di datteri

200 g di zucchero

200 g di mandorle sgusciate e spellate

4 albumi d’uovo

Denocciolare e tritare finemente i datteri, poi raccoglierli in una larga ciotola con lo zucchero e le mandorle, tritate fino a ridurle in una polvere fine. Mescolare con cura, poi unirvi gli albumi, montati in un recipiente a parte e incorporarli delicatamente al composto.

Foderare uno stampo rotondo con un foglio di carta da forno leggermente bagnata e strizzata, versarvi il composto ai datteri e mettere in forno già caldo a 180 °C. Cuocere per circa 45 minuti, fino a quando la superficie apparirà asciutta e compatta. Sfornare, lasciare intiepidire, poi sformare e servire la torta tiepida o fredda.

 

Pane ai datteri

Ingredienti:

240 g di datteri semisecchi denocciolati

1 cucchiaino di bicarbonato

1/4 cucchiaino di sale marino

360 g di farina

120 g di zucchero di canna

60 ml di tazza di silan (sciroppo di datteri)

1 uovo grande

olio di semi

Tagliare i datteri a tocchetti, riunirli in una larga ciotola e versarvi sopra 240 ml di acqua bollente, poi aggiungere il bicarbonato e il sale. Mescolare con cura, mettere da parte e lasciare riposare.

Mescolare la farina e lo zucchero in un secondo recipiente. Aggiungere gli ingredienti rimasti, mescolare con cura, quindi unire il composto di datteri e mescolare fino a ottenere un composto bene amalgamato.

Versare quanto preparato in uno stampo da plumcake unto di olio e infarinato, distribuirlo bene all’interno battendolo sul piano di lavoro, livellare la superficie e cuocere in forno già caldo a 180 °C per circa 45 minuti o fino a quando uno stecchino infilato al centro ne esce pulito. Lasciare riposare nello stampo per 10-15 minuti prima di sfornare e lasciare raffreddare su una gratella.

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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