Hebraica
I rabbini e il greco. Intrecci, divieti e giochi di parole

Qual era il rapporto dei rabbini con la lingua dell’impero?

Nessuna civiltà è un’isola. Nessuna è separata o impermeabile alle altre, anche se esistono livelli molto differenti di permeabilità. Specie quando si tratta di civiltà del passato, d’altra parte, bisogna stare attenti a leggere le fonti con attenzione per evitare conclusioni affrettate e fuorvianti. Spesso, per esempio, quando un gruppo dirigente all’interno di una civiltà cerca di stabilire confini più o meno rigidi per definire un dentro e un fuori, e dunque per definirsi, lo fa non perché questi confini sono già impermeabili ma proprio per la ragione opposta, cioè perché non lo sono. Questo è il caso del rapporto della civiltà rabbinica con le civiltà non ebraiche contemporanee e soprattutto con quella principale all’epoca della composizione della Mishnà, del midrash classico e del Talmud, cioè la civiltà grecoromana. In epoca rabbinica ormai da secoli l’ellenismo è penetrato nella regione corrispondente all’attuale Israele, suscitando in alcuni frangenti reazioni contrarie, più spesso adeguamento o anche entusiastica adesione. La cultura ellenistica entra in ogni ambito della vita privata e di quella associata, influenzando largamente non solo gli ebrei che ben presto adottano abitudini, mode e idee di origine greca, ma anche paradossalmente quelli che combattono questa penetrazione in nome dell’unicità della fede, del popolo e della tradizione di Israele. Poi, tra I e II secolo e.v., una serie di guerre dall’esito disastroso decretano la fine della civiltà ebraica antica gravitante intorno al tempio di Gerusalemme. Nei decenni successivi all’ultima e definitiva disfatta subita da parte romana al tempo dell’imperatore Adriano (135 e.v.) si sviluppa quella civiltà rabbinica di cui pure nell’epoca precedente erano presenti i prodromi, una civiltà che con i suoi monumenti scritti – la Mishnà e il Talmud – costituirà la base di un nuovo genere di ebraismo da cui deriva direttamente quello medievale e moderno. Dato il quadro, non stupisce la rigidità e anche l’ostilità con cui i rabbini si rivolgono alla civiltà greca e non ebraica in genere. Di fatto, però, le cose sono molto più sfumate, come emerge prendendo in esame il rapporto dei maestri con la lingua del nemico, la lingua greca.

Una delle prime impressioni date dalla lettura dei testi rabbinici è che si impegnino nella costruzione di barriere tra ebrei e non ebrei, siepi intorno al corretto modo di agire, distinzioni su ogni singola materia per definire la via corretta – letteralmente, la Halakhà – escludendo di conseguenza le vie non corrette. L’obiettivo sembra l’isolamento completo dopo l’ebrezza messianica che ha portato a sconfitte a ripetizione contro il potente impero romano. La separazione, insomma, come funzione della sopravvivenza. Poiché il greco è la lingua dell’impero, almeno nella sua parte orientale, i rabbini rinunciano a tutto ciò che in questa lingua è scritto. Non solo Omero, Platone e in generale la grande cultura e filosofia greche, ma anche tanti testi scritti in greco nei secoli precedenti da autori ebrei, persino quando si tratta di testi apologetici dell’ebraismo contro i suoi detrattori. In questo modo i rabbini lasciano cadere Filone, Giuseppe Flavio, l’intera letteratura pseudoepigrafica e la stessa traduzione dei Settanta, la versione della Torà in greco. Tutti testi e autori che vengono contemporaneamente accolti, copiati e dunque trasmessi dai cristiani. Se i rabbini rinuncino ai testi ebraici in greco perché questi sono fatti propri dai cristiani oppure i cristiani li accolgano in quanto lasciati cadere dai primi è impossibile dire: le due dimensioni si influenzano e rafforzano l’un l’altra. Ma davvero i rabbini vietano tutto ciò che è greco, a cominciare dalla lingua?

In alcuni passi della Mishnà e del Talmud viene proibita la frequentazione di luoghi simbolo della civiltà ellenistica come terme, stadi e teatri, a volte messi in relazione con l’idolatria. Altri testi vietano l’insegnamento della lingua e della sapienza greca. I rabbini sono infatti perfettamente consapevoli del nesso intimo tra pensiero, linguaggio e azione. Parlare greco significa pensare attraverso il filtro delle categorie della filosofia e della sapienza greche; e significa, almeno potenzialmente, agire di conseguenza e cioè come i greci. Si tratta evidentemente di una forma di lotta difensiva funzionale a riorganizzare ciò che rimane del popolo e della tradizione ebraica dopo due secoli di conflitto civile e esterno rovinoso e contemporaneamente all’espansione delle comunità cristiane. Nel Talmud babilonese, per esempio, viene “maledetto chi alleva maiali e maledetto chi insegna al proprio figlio la sapienza greca”. La cultura greca, a cui è associato il maiale, è qui l’opposto negativo di quella ebraica. Eppure un altro testo in cui è contenuto il divieto di insegnare la lingua greca è rivelatore di quanto essa sia penetrata in profondità, influenzando perfino la lingua dei rabbini suoi detrattori. La Mishnà nel trattato Sotà insegna infatti che i maestri stabiliscono il divieto di insegnare il greco “durante la guerra di Qitos”. Non è qui di particolare interesse chi sia Qitos, probabilmente il romano Lucio Quieto, governatore della Giudea nel 117 al tempo di un’altra grande insurrezione antiromana che coinvolge soprattutto l’ebraismo della diaspora e segna la fine dell’ebraismo alessandrino. Interessa invece l’espressione utilizzata dalla Mishnà per indicare la “guerra di Qitos”, polmos shel Qitos, in cui troviamo evidentissima la parola greca per “guerra”, polemos. La lingua greca insinuata perfino in un passo che ne vieta l’insegnamento è un manifesto che rende conto di quale sia il suo statuto e il suo ruolo nel Mediterraneo orientale.

Lingua vietata, dunque, e nello stesso tempo utilizzata. Sia nel Talmud babilonese sia in quello palestinese peraltro si citano eminenti rabbini a cui è permesso insegnare ai figli il greco, in deroga al principio stabilito nel brano della Mishnà che abbiamo visto. Non mancano polemiche tra rabbini in merito che testimoniano di probabili ampie discussioni su questo tema, anche con larvate accuse di tradimento. È del tutto improbabile, d’altra parte, che il divieto sia mai stato applicato con continuità semplicemente perché il greco è indispensabile per tutti o quasi gli aspetti della vita quotidiana. Gli strali contro il pensiero greco e il divieto di insegnamento della lingua appaiono in questo contesto per lo più appelli a rimanere fedeli alle proprie tradizioni ebraiche.

Come abbiamo già visto con il caso della “guerra di Qitos”, la lingua greca influenza la lingua della Mishnà e del Talmud con numerosi calchi, storpiature e prestiti che riguardano ogni settore della vita. Alcuni testi non solo giustificano ma addirittura esortano allo studio del greco, identificata come lingua “bella” per eccellenza. Nel Talmud e nel midrash Bereshit rabbà ricorre un’interpretazione che gioca sulla vicinanza tra il nome del terzo figlio di Noè Yafet, per la tradizione capostipite della Grecia il cui fratello maggiore Sem è capostipite dei semiti, e yafè, “bello”. Per i rabbini – e non solo per i rabbini – la bellezza è ciò a cui tutta la civiltà greca è rivolta, con i suoi monumenti, la poesia, la ginnastica e la cura del corpo. Bar Qapparà legge in questo modo il versetto di Bereshit/Genesi “Dio dilati Yafet e questi dimori nelle tende di Sem”: “Le parole della Torà siano dette nella lingua di Yafet nelle tende di Sem”. La Torà, in altre parole, deve essere tradotta in greco per gli ebrei senza discostarsi dal significato del testo ebraico originale, con una plausibile allusione alla Settanta. L’associazione tra grecità e bellezza torna in un testo tutt’altro che etnocentrico del Talmud palestinese in cui, secondo rabbi Jonatan di Bet Guvrin, “quattro lingue meritano di essere usate nel mondo. Il greco per il canto, il latino per la guerra, il siriaco per il lamento, l’ebraico per il discorso”. Il canto si riferisce qui all’intera sfera delle arti, mentre il siriaco indica l’aramaico parlato in terra di Israele in epoca rabbinica.

Se i rabbini spesso intervengono per ammonire contro l’uso del greco, questo avviene perlopiù per garantire spazio all’ebraico, dunque ancora una volta in un’ottica difensiva. “Rabbi Levì bar Chaità andò a Cesarea”, racconta il Talmud palestinese, “là udì come declamavano lo Shemà in greco e tentò di impedirlo”. Rabbi Levì in uno dei centri più importanti sia per l’amministrazione imperiale sia per la civiltà rabbinica – già questo un aspetto da non sottovalutare – interviene non contro il fatto che il greco venga utilizzato come lingua della preghiera da ebrei, ma soltanto contro la sua utilizzazione nella preghiera più importante, il cui testo estratto dalla Torà andrebbe sempre recitato in ebraico. Il suo intervento perché lo Shemà – e solo lo Shemà – sia recitato in originale ci dice che non ritiene un problema che il resto della preghiera sia in greco, o almeno non un problema dirimente. È possibile che Levì trovi preferibile che l’intera preghiera sia recita in ebraico, il suo intervento a Cesarea non va però in questa direzione. La presenza di iscrizioni in greco nelle sinagoghe è peraltro ampiamente testimoniata dagli scavi archeologici dell’ultimo secolo, anche se non indica necessariamente l’adozione del greco nella liturgia.

Non tutti gli ebrei dell’epoca conoscono il greco allo stesso modo. I rabbini più importanti, che rappresentano un establishment intellettuale coeso, in alcuni casi dimostrano una competenza tale da portarli a formulare in greco addirittura giochi di parole e midrashim aggadici, cioè spiegazioni di tipo narrativo. In Bereshit rabbà, dove i rabbini discutono sui mesi di gestazione, alla domanda sul perché il neonato di sette mesi vive – a differenza di quello di otto – rav Abbahu risponde: “Trovo la risposta nella vostra lingua: zeta epta eta octo”. Che cosa vuole dire il colto rabbino? Come in ebraico, anche in greco le lettere dell’alfabeto hanno valore numerico. Zeta vale sette, epta in greco; eta vale otto, octo. La risposta di Abbahu gioca sulla possibilità di leggere la stessa frase, con differenti spaziature, come ze ta epta e ta octo, in greco “vive quello di sette più di quello di otto”, cioè “vive piuttosto il bambino di sette mesi che quello di otto”. Non un rifiuto all’insegna dell’isolamento etnocentrico, dunque, ma la ricerca di significati a partire dalla stessa “lingua del nemico”.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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