Hebraica Identità
L’IDF, esercito israeliano, esercito degli ebrei

Una rassegna sulle istanze di politica, religione e società che in Israele si intrecciano nelle sue Forze di Difesa

Il 9 luglio 2014, mentre Israele si preparava a un’operazione militare di terra dentro la Striscia di Gaza, gli ufficiali della Brigata Givati ricevettero una lettera dal loro comandante, il colonnello Ofer Winter. Il suo contenuto fortemente religioso, più simile a una preghiera che all’esortazione di un capo militare che agisce in rappresentanza dello Stato, suscitò molto dibattito riguardo la sua appropriatezza e il suo significato, in luce della mai risolta, delicatissima dinamica di Israele tra “Stato ebraico” e “Stato democratico”. L’analisi del professor Mordechai Kremnitzer per conto di The Israel Democracy Institute, sul contenuto e le implicazioni della lettera – tra “religiosizzazione” dell’esercito e politicizzazione della religione – è una perfetta introduzione al tema di questo articolo.

L’esercito israeliano è laico o religioso? Come per molto altro riguardante Israele, la domanda è mal posta, non si può scegliere una definizione ed escludere l’altra. Certamente le Forze di Difesa Israeliane servono in nome dello Stato e dei suoi interessi, non di un’autorità religiosa; tutti i cittadini, ebrei e non – chi per obbligo di legge, chi per scelta volontaria – possono entrare a farne parte e anche farvi carriera. Definire l’IDF come esercito religioso sarebbe quindi falso, ma non meno fuorviante, per la comprensione della realtà israeliana, sarebbe ignorare il ruolo della religione al suo interno, trascurare l’intrico di dinamiche per mezzo delle quali società, religione e politica tra le file dei soldati si incontrano, si parlano, si scontrano. A partire dalla cerimonia che si tiene a conclusione della tironut, l’addestramento delle reclute, in cui ogni nuovo soldato, sulla Bibbia che appositamente per l’occasione ha ricevuto dal Rabbinato militare, giura fedeltà allo Stato. O del rivoluzionario cambiamento di cui è stato dato annuncio soltanto due settimane fa, frutto di una petizione inviata alla Corte Suprema dal “Gruppo Huddush per la libertà di religione e l’uguaglianza”: per la prima volta dal 1948, l’IDF dovrà implementare misure per consentire lo svolgimento di funerali militari non ortodossi (tenuti da rabbini conservative e reform) e laici.

Il Rabbinato militare

Il Rabbinato militare e l’IDF nascono insieme nel 1948. Il Rabbino capo militare, la più alta autorità religiosa dell’esercito, è nominato dal Capo di stato maggiore. Per legge, un rappresentante del rabbinato deve essere presente presso ogni unità, con il compito di prendersi carico, leggiamo sulla pagina dedicata del sito dell’IDF, “di tutti gli aspetti religiosi in conformità con i bisogni e le tradizioni dei soldati”. Continuando a leggere, vediamo come questa del rabbino militare sia tutt’altro che una figura marginale. Le sue numerose responsabilità (perciò anche lo spiegarsi della sua autorità) comprendono: la gestione delle questioni familiari e personali dei soldati in servizio (matrimoni, divorzi, conversioni, sepolture…), il controllo sulla kasherut e l’osservanza dello Shabbat, l’organizzazione di cerimonie, gruppi di studio di Torah, luoghi di preghiera, e così via. Si tratta, spiega Eliav Rodman su My Jewish Learning, di assicurare l’inclusione dei soldati osservanti, conciliare il dovere di rispettare le norme dell’ebraismo con il dovere di servire lo Stato, creando così dei ponti – e non delle fratture – tra l’essere ebrei ed essere cittadini. I soldati religiosi possono essere inseriti in programmi speciali, che combinano l’addestramento militare con lo studio in yeshivah; hanno diritto al tempo per le tre preghiere quotidiane e all’osservanza dello Shabbat, seppur ogni situazione debba essere valutata alla luce del principio del piquah nefesh, la salvaguardia della vita; possono richiedere e ottenere deroghe vestimentarie, come la barba per gli uomini, in osservanza del divieto di radersi e la gonna per le donne, in osservanza del divieto di indossare abiti maschili (sulla crescita della presenza di donne religiose nell’IDF, si veda Ruth Eglash sul Washington Post). Sempre sulla pagina dell’IDF dedicata alla presentazione del Rabbinato militare, una frase in particolare può dirci qualcosa sul dialogo tra religione e società che si sviluppa nell’esercito: “Il fatto che le mense militari siano kasher diminuisce le visibili differenze tra soldati religiosi e laici e promuove tra loro un senso di unità”.

Soldati religiosi e soldati laici

Ma in base a quali parametri si stabilisce se un soldato è religioso o laico? Si segnalano dei casi, scrive Michael Bachner su The Times of Israel, in cui la non chiarezza della definizione ha condotto a situazioni particolari. Abbiamo ad esempio un soldato della brigata Golani, condannato a venti giorni di prigione come punizione al rifiuto di obbedire all’obbligo di radersi: per motivi che non si conoscono, la sua richiesta di essere inquadrato come religioso e quindi di essere esentato da questo obbligo era stata rigettata. Si conoscono invece i motivi di un caso simile avvenuto nella stessa brigata: il rigetto della dispensa a radersi su base religiosa e la conseguente punizione per non obbedienza sono giunti questa volta dopo che il soldato in questione, interrogato dal rabbino della propria unità, non ha saputo rispondere riguardo la porzione di Torah prevista per lo Shabbat in arrivo. Alle dichiarazioni dell’avvocato Yael Tothani in relazione ai due casi (“Questo è illegale: un test ridicolo non può determinare se uno è religioso oppure no”), l’esercito ha risposto che la preparazione religiosa dei due soldati era stata più volte esaminata dai rabbini delle rispettive unità e che la decisione di negare l’inquadramento nella categoria religiosa era stata presa solo alla luce del loro responso.

Israeliani, cittadini, ebrei: il programma Nativ

L’ambito in cui forse il dialogo nell’esercito tra religione e società israeliana si esprime in maniera più significativa è il programma Nativ, che unisce il servizio militare a un percorso di conversione all’ebraismo – con sessioni di studio, seminari, attività per le festività e per Shabbat – al completamento del quale si compare, per una valutazione sulla propria preparazione e motivazione, davanti a un Beth Din. Yoav Zitun e Yehuda Shohat riportano su Ynet News che il numero di soldati convertiti ogni anno dal programma Nativ – la cui chiusura per problemi di budget lo scorso anno è stata scongiurata in extremis da un intervento del governo – è di circa 1500. Se da una parte esso rappresenta un’opportunità per tutti quei cittadini o nuovi immigrati di identità ebraica (soprattutto dai Paesi dell’ex Unione Sovietica) ma non halachicamente ebrei, con i suoi parametri chiari e facilitanti rispetto alla tortuosità di un percorso di conversione individuale, dall’altro la sua gestione da parte dell’IDF pone molti spunti di dibattito.

L’esercito infatti, continuano i giornalisti, è stato a più riprese criticato da gruppi di advocacy perché farebbe pressione sui suoi soldati non ebrei affinché assistano al seminario di presentazione del programma. Una lettera del 2017 scritta dall’Associazione per i Diritti Civili in Israele usa parole molto forti: “Si tratta di una violazione della privacy che calpesta la libertà di religione e di coscienza di queste persone e invia loro un messaggio umiliante e degradante: che sono cittadini di serie B e soldati inferiori”. E che porrebbe problemi anche dal punto di vista halachico, in quanto il ghiur non è valido se la persona non lo compie nella completa libertà di scelta.

Ma l’IDF respinge le accuse: “Agiamo con le migliori intenzioni, nessuna volontà di imporre ai soldati una scelta religiosa. Il programma Nativ nasce con l’obiettivo di rafforzare il senso di appartenenza dei nuovi immigrati e dei loro figli. Ognuno è libero di cominciarlo e anche di abbandonarlo a metà. Facciamo solo informazione sul seminario di presentazione e richiediamo a tutti di parteciparvi, per assicurare che non succeda che persone potenzialmente interessate rimangano all’oscuro di questa opportunità”.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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