Cultura
Il documentario di Rona Segal premiato al Jerusalem Film Fest approda a Pordenone

Israele e Palestina al festival “Le voci dell’inchiesta”

Al festival Le voci dell’inchiesta Pordenone Docs Fest vanno in scena due anteprime nazionali, Mission Hebron di Rona Segal, premiato al Jerusalem Film Fest di quest’anno e Of Land and Bread di Ehab Tarabieh, due documentari in versione cortometraggio girati rispettivamente nel 2020 e nel 19. Al centro ci sono la città di Hebron e una cittadina non ben specificata nella Cisgiordania, protagonisti sono i soldati israeliani, i coloni e i palestinesi. A parlarne a Pordenone è stato invitato Davide Lerner, che scrive su Domani e ha lavorato per tre anni alla versione inglese di Ha Aretz vivendo a Tel Aviv e collaborando con La Repubblica da Israele, Cisgiordania e Gaza. Lo abbiamo intervistato

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Il documentario di Rona Segal intervalla filmati privati girati nella città di Hebron a interviste a sei militari israeliani inviati sul posto. Quello di Tarabieh fa una narrazione simile: l’organizzazione per i diritti umani B’Tselem ha fornito a volontari nel West Bank macchine fotografiche con cui riprendere la vita quotidiana sotto l’occupazione israeliana. Che impatto hanno prodotti di questo genere sulla società israeliana?
Hanno un impatto molto limitato. I due documentari sono legati alle organizzazioni Breaking the Silence e B’Tselem che fanno lavoro di sensibilizzazione sull’occupazione in Cisgiordania da anni, ma non sono viste di buon occhio da tanta parte della società israeliana, che dopo il trauma della seconda intifada ha perso fiducia nel processo di pace. Soprattutto, sono criticate per voler diffondere prodotti di questo tipo all’estero: l’idea è che provochino, fuori dai confini del Paese, sentimenti anti-israeliani, o persino antisemiti. Temono reazioni come quella di uno spettatore al festival di Pordenone che mi ha detto, dopo aver visto i cortometraggi: “Trovo che Israele si stia riguadagnando tutto l’odio antisemita di cui gli ebrei sono stati oggetto”. Le loro attività, che sono importanti perché mostrano gli aspetti peggiori della repressione dei palestinesi, sono viste come una forma di tradimento. Ecco perché l’impatto sulla società civile è trascurabile: se gli israeliani avessero voluto dare peso a questo tipo di testimonianze, negli ultimi 54 anni lo avrebbero già fatto”.

Il destino di questi prodotti è in un certo modo già segnato: in Israele sono marginalizzati, all’estero rischiano di cadere nella banalizzazione: da una parte c’è chi trova conferma alle proprie convinzioni negative sull’operato di Israele, dall’altra chi ostracizza questi prodotti perché capaci di causare (o aumentare) l’antisemitismo, come per esempio ha fatto il magazine americano The Forward. Cosa ne pensa?
“Sono sicuramente oggetto di banalizzazione e strumentalizzazione, ma negli ultimi 10-15 anni la situazione è molto cambiata. Israele è riuscita a spostare il dibattito e a farsi conoscere a livello internazionale per ragioni che sempre più spesso esulano dalla questione del conflitto. Penso alle eccezionalità culturali, al fiorire delle start up e delle aziende tech, al turismo di piacere verso Tel Aviv, al ruolo da protagonista con i vaccini nella pandemia. È un risultato frutto di uno sforzo attivo e in parte è un dato molto positivo, perché oggi all’interno della linea verde Israele è un paese normale, con una democrazia funzionante e con una libertà di espressione affermata, come si evince anche da questi documentari. L’aspetto negativo è che questa nuova narrazione eclissa il dibattito sui palestinesi, che a Gaza vivono sotto embargo e in Cisgiordania sotto occupazione. Mission Hebron racconta forse il luogo in cui la repressione militare si esprime nel modo più allarmante: il complesso della tomba dei patriarchi fa sì che gli insediamenti si trovino nel cuore della città palestinese.

Qual è la distanza di queste realtà dalla vita di Tel Aviv?

Sono realtà che convivono comunicando poco, come fossero su due binari separati malgrado la prossimità geografica. E’ incredibile pensare che solo 50 chilometri separino una città spumeggiante come Tel Aviv, dove la vita si svolge come in qualunque altra città occidentale, da Gaza, e ancora meno dalle zone di scontro in Cisgiordania. Negli ultimi 15 anni i rischi di sicurezza sono molto diminuiti, i passaporti israeliani garantiscono di viaggiare in sempre più Paesi senza bisogno di visti, e l’Open Skies Agreement con l’Unione Europea ha anche aperto le porte ai voli low-cost, dando spazio per la prima volta a un turismo edonistico, specialmente, appunto, nella città di Tel Aviv.


E la distanza dei coloni da Tel Aviv?

Dipende di chi parliamo, ormai negli insediamenti oltre la linea verde vivono più di mezzo milione di israeliani. La maggior parte, penso per esempio ai cosiddetti “blocchi di insediamenti”, vivono in cittadine che hanno progressivamente cancellato le differenze con il resto di Israele. Progetti infrastrutturali, reti stradali moderne come la strada numero 5 verso il polo universitario di Ariel, frequentato anche da studenti arabo-israeliani, fanno sì che non ci si renda più neppure conto di entrare in Cisgiordania. E i decreti attuativi dell’esercito riflettono sempre più da vicino le leggi civili israeliane. Insomma, per la maggior parte di loro la distanza da Tel Aviv si sta assottigliando. È in corso un processo di normalizzazione, anche se ovviamente i luoghi raccontati dai documentari non ne fanno parte”.

Che cosa significa?
Secondo me molto presto ci sarà un cambio di paradigma, per cui il tema diverrà quello dei pari diritti tra israeliani e palestinesi in uno Stato unico. La minoranza arabo-israeliana è sempre più integrata – si pensi alla finanziaria approvata la scorsa settimana che assegna 9,4 miliardi di dollari per lo sviluppo socio-economico delle municipalità arabe in Israele.

Un commento ai due documentari?
Sono ben fatti anche se in Mission Hebron si avverte la volontà di rendere il messaggio forte possibile. Per esempio la scelta di intervistare, fra i soldati “pentiti”, due nuovi immigrati, uno brasiliano e uno americano che parla a stento l’ebraico, ha l’effetto di enfatizzare il paradosso di una forza occupante che impone restrizioni alla popolazione locale. Ma c’è una cosa che vorrei dire. A Hebron esisteva una forza di interposizione di cui faceva parte anche l’Italia – la Temporary International Presence in Hebron (TIPH) – che ha gestito per oltre vent’anni un’operazione di monitoraggio della situazione nella città. Era prevista dal protocollo di Hebron, un annesso degli accordi di Oslo, ma è venuta meno nel gennaio 2019, a qualche mese dalle elezioni. Adesso che in Israele c’è un nuovo governo, l’Italia potrebbe rimettere sul tavolo quella presenza internazionale.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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