Cultura
Il Museo della Tolleranza di Gerusalemme apre le porte

La lunga storia di un’istituzione non ancora ultimata ma che dovrebbe accogliere i primi visitatori. Non senza polemiche

Ci sono voluti oltre vent’anni, punteggiati da non poche polemiche. Tra pochi giorni, però, il tanto atteso Museo della Tolleranza di Gerusalemme, il MOTJ, potrebbe finalmente aprire le sue porte al grande pubblico. Parzialmente, certo, con i piani sotterranei destinati a ospitare il museo propriamente detto ancora in lavorazione, ma è già qualcosa. E i circa 120 finanziatori che hanno partecipato all’evento di ringraziamento alla fine di aprile hanno già potuto fare una visita in anteprima. Ammirando i volumi maestosi dei due piani superiori collegati da una scala che sembra galleggiare nel vuoto, l’auditorium con 400 sedute made in Italy e trattamento acustico tedesco, l’anfiteatro all’aperto da 1.000 posti che si trasforma in cinema premendo un semplice pulsante e, ovviamente, la prima mostra che vi è stata allestita. Dedicata ai 75 anni della indipendenza israeliana, l’esposizione fotografica non si è fatta mancare il suo bravo scandalo. Una delle 120 opere in mostra, firmata dall’acclamato fotoreporter Micha Bar-Am, mostrava un soldato nudo che si lavava con l’acqua di una tanica durante la guerra dello Yom Kippur del 1973. Prima dell’inaugurazione, e senza avvertire i parenti del fotografo, la foto è stata rimossa. Non si voleva urtare la sensibilità dei visitatori religiosamente osservanti, ma si è riusciti a fare imbestialire Barak, il figlio dell’artista. Questi, facendosi portavoce anche della madre, ha dichiarato che il museo “si preoccupa meno di ferire i nostri sentimenti liberali rispetto ai sentimenti delle persone religiose”.

Di contestazione in contestazione, tutta la gestazione di questo monumentale edificio, quattro volte più grande di Yad Vashem, non è stata semplicissima. A cominciare dalla progettazione, affidata a inizio secolo a Frank O. Gehry, ma poi passata agli architetti israeliani Bracha e Michael Chyutin dopo che l’archistar aveva abbandonato l’impresa nel 2010. Nel frattempo, c’era già stata una sospensione dei lavori nel 2005, quando durante gli scavi preliminari erano emerse tracce di sepolture. Parte delle fondamenta toccavano infatti un angolo dell’antico cimitero musulmano di Mamillah, risalente al tempo delle crociate e utilizzato fino al 1927, e un’organizzazione affiliata all’ormai illegale Ramo Nord del Movimento Islamico aveva presentato una petizione alla Corte Suprema perché bloccasse gli scavi. Nel 2008 i giudici avevano ridato poi il via libera ai lavori, sostenendo che su quella parte di cimitero era comunque già stato costruito un parcheggio negli anni Sessanta.

Alla luce di queste e di altre diatribe, il fatto che la nuova istituzione nasca con l’intento di celebrare la tolleranza offre il fianco a fin troppo facili ironie. Eppure il suo direttore operativo, Jonathan Riss, si dichiara ottimista. E si dice convinto che questa immensa struttura di 17.500 metri quadri, pensata come un ponte che collega la Città Vecchia con la Città Nuova, l’est con l’ovest, la Gerusalemme araba con quella ebraica, diventerà una sorta di “Parlamento del popolo”. Per come la vede lui, questo spazio darà ai suoi visitatori, dai privati cittadini a quanti si occupano dei conflitti mondiali, la possibilità di esplorare i valori ebraici e universali, esaminare le proprie convinzioni, confrontarsi con i propri stereotipi e aprire le menti alle visioni e culture dell’altro.

La prima apertura pubblica, prevista per metà maggio, riguarderà l’auditorium e gli spazi polivalenti destinati a convegni, eventi artistici e culturali e, appunto mostre. Per l’accesso invece ai due musei, quello degli adulti e quello dei bambini, bisognerà aspettare, ma qualche anticipazione giunge comunque dalla stampa israeliana, che ha potuto accedere al cantiere. Come si legge su Times of Israel, il primo piano sotterraneo è destinato a ospitare un teatro da 150 posti con relative green room oltre a un museo per bambini di 1.300 metri quadrati. Scendendo di un altro piano si accederà invece al museo per adulti, esteso su 3.000 metri quadrati e diviso in due sezioni: A People’s Journey e Social Lab. La prima farà salire i visitatori su una barca virtuale, leggibile come allegoria di questioni sia locali sia universali, che li condurrà in un viaggio della durata di un paio di ore attraverso temi fondamentali come la fede, l’amore per l’apprendimento, la resistenza al male, l’azione contrapposta alle parole, l’amore per il prossimo, la vita santificante e, infine, la nostalgia di Sion.
La parte Social Lab si baserà invece su materiali audiovisivi volti a innescare discussioni su questioni del passato, del presente e del futuro. Anche qui, secondo Riss, lo scopo principale sarà quello di “creare una comprensione civica tra le diverse parti della società israeliana su qualsiasi cosa, dalle questioni globali alla discriminazione sociale, alle molestie e alle questioni di genere”. Ma pure su tale fronte non mancherebbero le polemiche. Pare infatti che questo settore della mostra si ispiri a una esposizione analoga allestita presso il Tolerance Museum di Los Angeles, progetto del Simon Wiesenthal Center al pari del MOTJ, e che la cosa non piaccia a tutti. Secondo le voci critiche, per il museo di Gerusalemme ci si sarebbe affidati a consulenti statunitensi quando sarebbero bastati quelli israeliani. Il direttore operativo ha anche in questo caso rimandato le obiezioni al mittente, snocciolando una serie di nomi di professionisti locali coinvolti nel progetto. Tra questi spicca quello di Ayelet Frish, esperta israeliana in strategia e pubbliche relazioni che per 10 anni ha lavorato al fianco del defunto presidente Shimon Peres.

Motivo di discussione sono anche i principali finanziatori del museo, individuabili dalle parti della destra religiosa nella mappa ebraica di Stati Uniti e Canada. Chiunque sia stato a donare fondi al museo, comunque, pare che i ritardi siano imputabili più a disguidi burocratici e a intoppi collegati alla pandemia che a questioni economiche. I padiglioni della prima sezione sarebbero stati ad esempio completati e pagati prima del lockdown, ma i container che li trasportavano sono giunti a destinazione solo in questi mesi. Va poi aggiunto che il materiale audiovisivo che compone gran parte dell’esposizione non poteva essere girato durante il lockdown e che comunque anche la burocrazia ci ha messo del suo…

Basato in gran parte sull’uso della tecnologia, il museo presenterà chicche come gli ologrammi di grandi personaggi della storia, dal filosofo medievale Moisé Maimonide al primo ministro Menachem Begin, in grado di dialogare con i visitatori. Per vivere un’esperienza il più personalizzata possibile, si potrà autorizzare l’accesso ai dati dei propri social e consentire così all’intelligenza artificiale di far interagire l’ologramma con un profilo creato ad hoc, discutendo degli argomenti che si presume stiano più a cuore a chi lo interpella. Passando ad altri settori, nel padiglione Love Thy Neighbor ai visitatori saranno presentate situazioni che scompaginano pregiudizi e cliché. Come quella in cui si vede il personale di un ospedale arabo che recita lo Shema per i pazienti ebrei malati di Covid. Scopo di questa visione, secondo Riss, sarà quello di far nascere una conversazione e una riflessione sui diritti della comunità arabo-israeliana alla luce del notevole servizio che molti dei suoi membri prestano agli ebrei negli ospedali di tutto il paese.

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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