Israele
Il nuovo volto di Eilat

Da meta privilegiata del turismo a città dei sopravvissuti al massacro del 7 ottobre, che non sanno se e quando torneranno nelle loro case, la maggior parte delle quali distrutte

Eilat: da meta privilegiata del turismo interno a Israele, a luogo abitato dai sopravvissuti al massacro del 7 ottobre.
La maggior parte di coloro che si sono rifugiati ad Eilat arrivano da Sderot, Netivot e Ashkelon, per un totale di 65.000 personeche ancora non sanno se e quando potranno tornare nelle loro case, la maggior parte delle quali distrutte.
Oltre a loro ci sono numerosi volontari, tra cui 50 professionisti inviati dal Centro di Salute Mentale Shalvata, per fornire pronto soccorso psicologico, con lo scopo di alleviare la tempesta emotiva vissuta dagli sfollati.
Come spiega ad Haaretz il professore David Roe, psicologo clinico e presidente del Dipartimento di Salute Mentale Comunitaria dell’Università di Haifa, esiste tuttavia una gerarchia tra i rifugiati ospiti a Eilat, dovuta al mal funzionamento delle istituzioni governative.

I residenti di Sderot – attaccata ferocemente dai terroristi di Hamas – sono stati evacuati immediatamente per ordine del Comando del Fronte Interno, quindi la loro permanenza negli alberghi di Eilat è interamente finanziata. Ma la stessa direttiva non è stata emanata nei confronti di Netivot e Ashkelon, nonostante, come Sderot – siano costantemente sotto attacco missilistico dal 7 ottobre. I loro abitanti, dunque, devono cercare di convincere le autorità statali che anche loro hanno diritto al finanziamento e, per farlo, sono costretti ad evocare ogni giorno il loro dolore e la loro sofferenza. Ogni famiglia fa pressione a modo suo sugli assistenti sociali, e questi fanno del loro meglio per convincere le persone con cui parlano all’altro capo del telefono, sperando che qualcuno risponda alla richiesta degli sfollati e che venga approvata la loro idoneità al finanziamento.

Tuttavia, anche oloro che hanno affrontato con successo questo processo estenuante e hanno ricevuto il dubbio status di “sfollato”, sono costretti poi a rendersi conto che questo “titolo” vale solo per un periodo limitato, di solito per qualche giorno, e quindi di avere ottenuto solo una tregua momentanea allo stress dovuto sia alla precaria situazione economica sia all’abbandono della propria casa per un tempo indefinito.
Intorno a queste famiglie disperate sciamano bambini di tutte le età. Le prime a ricevere il permesso di evacuare e il finanziamento completo per il soggiorno negli hotel sono quelle con bambini che necessitano di cure specifiche.
Anche in circostanze normali, prendersi cura di bambini come loro è impegnativo sotto ogni aspetto e richiede tutta una serie di sostegni e terapie specifici, che sono stati sottratti tutto d’un colpo, contribuendo all’esaurimento, alla paralisi e all’impotenza delle famiglie.

Una madre racconta al Prof. Roe che le capacità verbali di suo figlio sono regredite drasticamente dopo un mese senza il logopedista. Non è il solo. Per tutti i bambini, senza scuola, le giornate diventano insostenibili, anche se i volontari delle accademie pre-militari cercano di organizzare per loro qualche ora di attività ogni giorno. Questi giovani ben intenzionati aiutano, giocano con i più piccoli e danno una breve pausa ai genitori, specie alle madri, che sopportano la maggior parte del carico nel prendersi cura dei propri figli. Sono anche le più assertive – racconta Roe – quando si tratta di lottare per l’idoneità come sfollati e ottenere gli aiuti finanziari. Mentre gli uomini, commenta, sembrano più introversi e arrendevoli.

Nel frattempo, quello che doveva essere uno dei luoghi più sicuri del Paese è già stato attaccato più volte da missili provenienti dallo Yemen.
“Avevate promesso che qui non ci sarebbero state le sirene” si lamentano i bambini con i genitori.
L’unica routine rimasta, la si osserva nella sala da pranzo dell’hotel, dove i pasti vengono serviti ad orari regolari.
Per il resto, continua il professore, di regolare non c’è nulla, persino nell’abbigliamento: alcune donne girano in pigiama in pieno giorno mentre gli uomini vanno in giro a torso nudo.

Il futuro è troppo lontano e il presente ancora senza scopo.
Sono tutti traumatizzati ma, al tempo stesso, hanno tutti bisogno di un senso di comunità, di strutture sicure per i propri figli, di un lavoro. Non solo loro, anche i residenti di Eilat, da sempre impiegati nel turismo, che ora si sono ritrovati improvvisamente disoccupati. Intere famiglie sono sull’orlo della crisi.  Eppure, sia il gruppo di lavoro di Roe che i soldati fanno del loro meglio: “Israele deve rimanere unito” continuano a ripetere.
È diventato il nuovo mantra. Di tutto il Paese.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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