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Il piano di Trump per Israele e Palestina. Un’analisi

Il piano di pace e le sue antinomie

Dopo oltre due anni di gestazione e con un tempismo strumentale alla campagna elettorale di Trump e Netanyahu – l’uno stretto dalle procedure di impeachment, ma con il massiccio sostegno dei fondamentalisti cristiano-evangelici, la sua constituency politica forse più compatta, l’altro in attesa di processo con imputazioni di corruzione ed ansioso di preservare il consenso dei coloni e l’alleanza di governo con la destra nazionalista e religiosa – l’Amministrazione americana ha reso noto il suo piano in un documento detto “Peace to prosperity” di 180 pagine.

Non un piano di pace, bensì un quasi diktat imposto unilateralmente alle parti che contraddice accordi precedenti in materia di confini, insediamenti, rifugiati e lo status di Gerusalemme e contrasta con le risoluzioni rilevanti delle Nazioni Unite e con il principio ispiratore di anni di trattativa per cui il conflitto può e deve essere risolto sulla base del rispetto dei diritti nazionali dei due popoli e della coesistenza fra due stati sovrani. Umilia i palestinesi e rafforza la retorica della destra in Israele che rifiuta, con forte presa nell’opinione pubblica, di riconoscere l’Autorità palestinese (ANP) e il suo Presidente Abbas come partners nel negoziato e ritiene che la stessa soluzione del conflitto non sia una priorità del paese. Vi è in atto da tempo nella società israeliana uno spostamento verso posizioni radical-nazionaliste: una vasta parte di essa guarda ai palestinesi come un qualcosa di “invisibile” dietro il muro di separazione, un nemico ingrato e irreducibile che può essere contenuto in un conflitto “a bassa intensità”. Secondo inchieste d’opinione, non più del 40 per cento degli israeliani sostiene convinto una soluzione  “a due stati”, il 15 opta per uno stato unico senza diritti per i palestinesi, poco più del 10 per uno stato binazionale su base egualitaria che assicuri pieni diritti ai palestinesi; il resto è confuso, ambivalente, incerto.

Secondo il piano , Israele potrà annettere la valle del Giordano, abitata da circa 80.000 palestinesi e 10.000 israeliani, e la totalità degli insediamenti dove vivono oltre 400.000 israeliani – in toto quasi il 30% della Cisgiordania – cedendo in cambio il 14 % di territorio lungo il deserto del Negev non distante dalla striscia di Gaza. Questo “scambio” di territori è vistosamente lontano da quanto discusso in precedenti trattative fra le parti (a Taba nel 2001 e Annapolis nel 2008, dove offerte pragmatiche di Israele furono respinte da Arafat e Abbas). Secondo Shaul Arieli – uno dei maggiori esperti israeliani in materia di status di Gerusalemme e degli insediamenti – che ritiene che la soluzione “a due stati” è ancora possibile, 130.000 circa degli oltre 400.000 coloni vivono infatti in agglomerati vicino alla Linea verde (il confine di Israele pre-1967) e uno scambio paritario di territori pari a circa il 4 % consente di mantenere sotto la sovranità di Israele quasi l’80% degli stessi coloni senza pregiudicare le esigenze di continuità territoriale di un futuro stato di Palestina.
Uno stato palestinese, secondo il piano di Trump, potrà essere istituito fra 4 anni, ma soggetto a condizioni stringenti in materia di stato di diritto, rispetto dei diritti umani, programmi scolastici – che dovranno bandire l’apologia dell’irredentismo guerrigliero della vecchia OLP -, rinuncia al sostegno finanziario dell’ANP alle famiglie di “terroristi” uccisi (ndr – nel testo del documento originale “Peace To Prosperity” si legge: “The PLO and the Palestinian Authority shall: Take all necessary actions to immediately terminate the paying of salaries to terrorists serving sentences in Israeli prisons, as well as to the families of deceased terrorists (collectively, the “PRISONER & MARTYR PAYMENTS”) and to develop humanitarian and welfare programs to provide essential services and support to Palestinians in need that are not based upon the commission of terrorist acts), disarmo pieno di Hamas e della Jihad islamica. Soprattutto il futuro stato sarà privo di effettiva sovranità, soggetto ad un regime “demilitarizzato” (ndr – nel testo/Appendice 2C, si legge: The State of Palestine will not be able to develop military or paramilitary capabilities inside or outside of the State of Palestine) e privo di controllo sui confini e sulle risorse idriche. In qualche modo potrà essere assicurata una continuità territoriale fra le città palestinesi. Resteranno 15 remoti insediamenti israeliani come enclaves in seno all’entità-stato ed esso non godrà di contiguità, se non con un complesso sistema di gallerie e ponti, da un lato con la striscia di Gaza, dall’altro con i ponti sul Giordano che sono i punti di passaggio con e dalla Giordania.
Un numero limitato di rifugiati, oggi dispersi negli stati arabi vicini, potrà insediarsi nel futuro stato, ma non – diversamente da quanto prefigurato nelle trattative di Camp David e Taba nei primi anni 2000 – potrà “ritornare” in Israele né beneficerà di indennizzi finanziari.
Gerusalemme, infine, resterà nella sua interezza sotto l’esclusiva sovranità di Israele. La capitale del futuro stato palestinese si costituirà lungo l’area a nord-est della città, al di là della barriera di separazione, un’area negletta, povera di servizi socio-sanitari e separata dalla città, dove parte preponderante dei 120.000 palestinesi, che ivi vivono , peraltro lavora, studia, usufruisce di servizi. I 200.000 palestinesi abitanti nella Gerusalemme est potranno mantenere lo status di residenti in Israele di cui godono od optare per la cittadinanza palestinese. La città vecchia e i luoghi sacri resterebbero sotto la giurisdizione di Israele con accordi con le diverse confessioni religiose, ma il Monte del Tempio con le Moschee di Omar e Al-Aqsa, pur sotto il controllo del Waqf mussulmano, sarebbe aperto alla preghiera anche di ebrei, contrariamente allo status quo osservato dal 1967; ciò rischia di alimentare esplosioni di violenza interreligiosa come già in anni recenti.

Le conseguenze
Alcuni osservatori notano che il piano, pur nel suo unilateralismo in favore di Israele, riconosce una situazione esistente di fatto, il fatto cioè che Israele abbia già annesso gli insediamenti e trasferito ai coloni ivi residenti la legislazione israeliana. Vige infatti nell’area C della Cisgiordania un sistema legale doppio e separato : gli israeliani rispondono alla legge civile di Israele, i palestinesi sono soggetti al regime di occupazione. Ma allora perché ambire ad annettere la valle del Giordano, atto che – come ricorda Ehud Barak, ex Primo ministro e ministro della difesa, ora all’opposizione – inasprirà i rapporti con la Giordania legata ad un trattato di pace con Israele da 25 anni e che non rappresenta ormai una minaccia strategica per Israele (non per opera dell’ Irak né dell’ISIS né di altri potenziali attori ) ?
L’unico costo o concessione che il piano esige da Israele è quel 70 % della Cisgiordania dove dovrebbe formarsi l’entità-stato di Palestina; di qui la protesta dei movimenti della destra integralista che accusano il piano Trump di imporre una spartizione della Palestina (o Terra di Israele) che essi immaginano, per ragioni storico-teologiche, riservata nella sua integrità al possesso esclusivo degli ebrei.
Ai palestinesi il piano chiede invece di accettare una condizione permanente di soggezione a Israele: la loro stessa sicurezza sarebbe consegnata ai benevoli comportamenti della controparte; solo forze di polizia sarebbero ammesse, lo stato in fieri avrebbe confini solo con Israele e senza un controllo autonomo sugli stessi. Non vi è menzione alcuna dell’urgenza di una riabilitazione economico-umanitaria nella striscia di Gaza e di un accordo fra Israele e Hamas che ponga fine alla sciagurata guerra di guerriglia da questa mossa contro il sud di Israele e al tempo stesso porti alla rimozione del blocco che Israele ivi impone dal 2007. Abbas, Presidente della ANP, ha dichiarato il suo rigetto del piano e ribadito l’impegno già ventilato più volte di abbandonare ogni cooperazione in materia di sicurezza fra la polizia palestinese e Israele. La Lega araba lo appoggia e afferma di non volere cooperare in alcun modo con i proposti degli Stati Uniti. Ma i palestinesi sono deboli, divisi fra Gaza e Cisgiordania, tra Hamas e Fatah, osteggiati da una parte rilevante del mondo arabo. E’ noto da tempo il progresso verso l’instaurarsi di rapporti normali fra Israele e gli stati arabi sunniti della regione del Golfo, uniti in una “santa alleanza” in funzione anti- iraniana e ansiosi di cooperare in campo commerciale, tecnologico e militare. Ad alcuni dei despoti al potere in questi stati, l’insistenza dei palestinesi circa il diritto di autodeterminazione in uno stato indipendente è un motivo di fastidio, benchè tale irrisolta questione si frapponga tuttora al riconoscimento e a un pieno accordo di pace con Israele. L’Arabia saudita e lo stesso Egitto hanno reagito con prudente interesse al rilascio del piano americano.

In un contesto così difficile i paesi europei dovranno assumere una posizione. Per lungo tempo, in seguito alla paralisi dei negoziati diretti fra le parti in causa e consapevoli della primazia degli Stati Uniti per la loro azione di mediazione nel conflitto e per l’influenza da essi esercitata su Israele, essi hanno optato, anche per divisioni interne e spinti a ripiegarsi sulle crisi della UE, per un atteggiamento di “wait and see” in attesa delle decisioni americane.
Oggi, ritengo, la UE dovrebbe : 1) opporsi al piano di Trump; 2) difendere la soluzione ” a due stati” in coerenza con i parametri concordati in sede internazionale ; 3) confermare il proprio impegno a distinguere fra Israele e gli insediamenti richiamandosi alla recente sentenza della Corte europea di giustizia circa l’esigenza di etichettare le produzioni di beni di tali insediamenti in modo corretto e non come “made in Israel” ; 4) sostenere la società civile nei due paesi e delle tante ONG che lavorano insieme, con mille difficoltà frapposte, in difesa dei diritti umani e in sostegno a forme di cooperazione in campo sanitario, educativo, ambientale.

 

L’articolo uscirà su Affari internazionali, rivista on line dell’Istituto Affari Internazionali. Lo abbiamo pubblicato per gentile concessione dell’autore.

Giorgio Gomel
collaboratore

Economista, è stato fra i fondatori di Jcall, associazione di ebrei europei in sostegno a una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. E’ presidente di Alliance for Middle East Peace Europe, che sostiene e finanzia progetti cooperativi di ONG israeliane e palestinesi. E’ stato fra i fondatori nel 2014 di Beth Hillel, la comunità ebraica progressive di Roma.


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