Cultura
Il Principe Verde fuggito da Hamas: una storia vera

Nel 1997 Mosab Hassan Yousef decide di iniziare a collaborare con lo Shin Bet. Secondo Gonen Ben Itzhaq, l’agente che lo ha reclutato, “molti israeliani gli devono la vita, senza nemmeno saperlo”

Hamas ha ucciso il processo di Pace negli anni Novanta attraverso gli attacchi terroristici suicida. Io sono il figlio di quell’era. Ma ho dedicato il resto della mia vita a combatterla”. Quando il 20 novembre sono stati presentati di fronte agli Stati membri delle Nazioni Unite i 45 minuti di filmati – ufficialmente autorizzati dalle autorità israeliane – che mostrano il massacro di Hamas nei kibbutz del sud di Israele, la missione israeliana presso l’ONU ha invitato a presentare il film un’importante voce fuori dal coro: quella di Mosab Hassan Yousef, figlio di uno dei fondatori del gruppo terrorista, che da quando è iniziato questo conflitto sta cercando, attraverso i social, di far sentire la voce dei palestinesi a loro volta vittime di Hamas, cercando di spiegare la pericolosità dell’ideologia del gruppo terrorista per Israele, per l’Occidente e, prima ancora, per la popolazione civile a Gaza.

“Trattandosi di un’organizzazione terroristica, Hamas adopera il terrore anche all’interno della sua complessa struttura gerarchica. L’unico modo per non esserne complici è stato lasciarla per sempre, assieme al mio amato popolo”.
Sono queste le parole di Mosab Hassan Yousef (nato a Ramallah, classe 1978), figlio di Sheikh Hassan Yousef, uno dei più importanti leader dell’organizzazione. Nonostante il suo destino da militante sembrasse segnato, poiché traumatizzato dalle torture subite all’interno dello stesso gruppo, e con lo scopo di salvare la vita di suo padre – una delle principali mire dello Shin Bet – nel 1997 Yousef decide di collaborare con Israele, sventando numerosi attacchi terroristici. Secondo Gonen Ben Itzhaq, l’agente che lo ha reclutato “molti israeliani gli devono la vita, senza nemmeno saperlo”.

“La collaborazione con gli avversari è stata la cosa più dolorosa che potessi fare al il mio popolo, ma non potevo più vivere in una cultura basata sulla morte” spiega Mosab nel corso del documentario, alternato da immagini d’epoca che mostrano l’ascesa del padre e del gruppo terrorista. Dopo dieci anni di servizio, nel 2007 Mosab decide di rifarsi una vita negli Stati Uniti da cui, nel 2008, rischia l’espulsione, perché a sua volta sospettato di terrorismo. Sarà scagionato dallo stesso agente Ben Itzhaq che per salvarlo ha dovuto lasciare lo Shin Bet per sempre, svelando al mondo la storia del “principe verde” e permettendogli, nel 2010, di ottenere asilo politico negli USA. Grato di questa possibilità datagli proprio da un israeliano, da allora Mosab non hai mai smesso di far sentire la propria voce. Oggi più che mai.

La storia di Mosab e di Gonen è anche la storia di una complessa amicizia, cominciata nel corso della Prima Intifada, quando il primo viene arrestato nelle carceri israeliane per aver aggredito alcuni soldati mentre cercavano di mantenere l’ordine nel West Bank in preda al terrorismo e Gonen intuisce fin da subito il ruolo cruciale che Mosab può avere, per impedire altri attentati e la perdita di numerose vite umane.

Questa storia ha fatto il giro del mondo nel 2014, grazie al pluripremiato film Green Prince, in italiano “Il figlio di Hamas”, tratto dall’autobiografia di Mosab: “Il figlio di Hamas – Dall’intifada ai servizi segreti israeliani”.
A farla conoscere attraverso il grande schermo è stato il regista israeliano Nadav Shirman, che ci ha raccontato l’origine di questo documentario e la sua esperienza personale nell’incontro con Mosab e Gonen.

Come è nata l’idea di questo progetto?
“The Green Prince” non è il primo documentario basato sulla vera storia di un agente dei servizi segreti. Ho cominciato a interessarmi dell’argomento nel 2007 con la regia di “The Champagne Spy”, in cui si racconta la storia di Oded, che a 12 anni scopre di essere figlio di un agente del Mossad, quando il padre gli fa giurare di mantenere il segreto, perché da questo dipende la loro stessa vita. Nel 2013 ho proseguito con il documentario “In the Dark Room”, storia di Magdalena e Rosa Kopp, moglie e figlia del celebre terrorista Ilich Ramírez Sánchez, noto come “Carlos lo Sciacallo”, che intraprendono un viaggio che fa riflettere sui dolorosi percorsi del terrorismo internazionale. Quando ho letto il libro di Mosab ho intuito immediatamente che questo poteva essere il terzo capitolo di una sorta di “trilogia sul terrorismo”. Ma ciò che mi ha colpito di più, fin da subito, della storia di Mosab, è stata anche la storia della sua, pur se complicata, amicizia con Gonen.

Come sei riuscito a convincerli a diventare parte di questo progetto?
Non è stato facile. Non hanno accettato immediatamente di diventare i due protagonisti del tuo documentario. Avevano prima, giustamente, bisogno di conoscermi e di fidarsi di me. Prima sono andato a New York dove ho trascorso alcuni giorni vivendo a stretto contatto con Musab, in modo che potesse imparare a conoscermi e fidarsi di me. Dopo averlo convinto ho dovuto fare lo stesso, in Israele, con Gonen. Alla fine, hanno capito entrambi quanto fosse importante far conoscere al mondo la loro storia: una storia di amicizia, ma prima ancora di coraggio, perché grazie alla loro preziosa collaborazione sono state salvate centinaia di vite, sia di israeliani sia di palestinesi.

Dove avete girato il documentario e come si è sviluppata la trama di una storia così complessa?
Trattandosi di una co-produzione con la Germania, abbiamo ripreso soprattutto negli studi di registrazione tra Monaco e la Bavaria. È stato un lavoro di dieci giorni molto intensi, nel corso dei quali, proprio grazie alle loro testimonianze, ho capito meglio quale piega dare al plot del documentario e quale materiale d’archivio andava integrato ai loro racconti. Anche per questo il lavoro più grosso è stato, poi, quello di postproduzione, con l’intento, anche attraverso al materiale d’epoca, di far meglio capire al pubblico la complessità della storia e delle radici culturali di Hamas.

Alla luce del massacro del 7 ottobre, quale ruolo ha oggi un film come questo nella storia della cinematografia israeliana?
Non si tratta di un film politico, ma di un film etico. Per questo è così importante aver raccontato non solo la storia e il percorso interiore dei due protagonisti, ma, soprattutto, l’evoluzione della loro amicizia e, prima ancora, della mutua fiducia. Una fiducia resa possibile solo grazie alla scelta etica di due uomini straordinari. Quando abbiamo presentato per la prima volta il film alla Cinematheque di Tel Aviv, con la presenza in sala dei due protagonisti, alla fine del film l’intero pubblico ha applaudito per dieci minuti di seguito. Non alla mia regia, ma al loro coraggio: sono uomini come loro che possono cambiare la storia di un conflitto, come quello ancora in corso, e dare la speranza per un ritorno a degli accordi per il Processo di Pace.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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