Israele
“Il pugno della libertà”, una serie Tv prodotta da Hamas

La fiction che nel mondo arabo viene considerata la risposta palestinese a “Fauda”, racconta di un dettagliato piano per liberare tutta la Palestina. Nel 2022

Maggio 2022: la serie televisiva prodotta da Hamas e diretta da Mohammed Khalifa e Hossam Hamdi Abu Dan Fist of the Free (“Il pugno della libertà”, Qabdat al-Ahrar in arabo) è stata premiata con una cerimonia un mese dopo il suo debutto sul canale televisivo di Gaza. Era il 2022. Il leader di Hamas nella Striscia, Yahya Sinwar, era presente alla premiazione e ha consegnato personalmente i premi a registi, attori e al team di produzione: “Lodo gli sforzi di tutti coloro che hanno creato e lavorato su questa serie”, ha detto. “Il vostro lavoro ci avvicina alla liberazione. Questa serie è parte integrante di ciò che stiamo preparando nelle Brigate Iz al-Din al-Qassam”, ha aggiunto, riferendosi all’ala militare di Hamas.

Nonostante, allora, sia passata inosservata al di fuori dell’enclave, negli ultimi mesi, alla luce del massacro del 7 ottobre, ha cominciato a fare notizia nel mondo arabo che ormai la definisce la risposta palestinese a “Fauda”.
“Le scene che appaiono nella serie sono molto simili a ciò che è realmente accaduto il 7 ottobre nella zona al confine di Gaza” hanno osservato sul canale televisivo Al-Araby del Qatar. “Guardando la serie, si può vedere chiaramente una connessione tra la fiction e ciò che è realmente accaduto: sia nell’attacco che nella velocità di esecuzione, sia nella strategia dell’inganno che nel piano di combattimento dei guerriglieri.”

La serie, in 30 episodi, è andata in onda per la prima volta sul canale televisivo satellitare Al-Aqsa, di proprietà di Hamas, e poi sul canale Al-Manar, broadcast di Hezbollah. Ora è disponibile anche sul canale video Dailymotion. Il primo episodio inizia con gli agenti dei servizi di sicurezza dello Shin Bet che entrano nella Striscia di Gaza con un unico obiettivo: catturare Abu Anas, un membro storico di Hamas che è la grande mente dietro un piano segreto.
Episodio dopo episodio – di 40 minuti ciascuno – il suo piano viene svelato allo spettatore: gli esercizi intensivi di addestramento per i militanti, comandati personalmente da Abu Anas, come rapire i soldati dai carri armati e, infine, gli scontri faccia a faccia in una base militare israeliana, proprio come è avvenuto alle prime ore dell’alba del 7 ottobre.
La trama si complica quando i membri dello Shin Bet riescono ad arrestare Abu Anas e cercano di estorcergli informazioni, ma lui non rivela nulla e riesce a scappare.

La serie mostra anche cosa succede nel covo sotterraneo di Hamas: dalla pianificazione dell’attacco, alla raccolta di informazioni sulle basi militari nel sud di Israele, alle discussioni sull’attacco stesso e su come prendere in ostaggio i soldati.
“Come si sconfigge il nemico?” chiede la mente diabolica ai membri di Hamas “È importante raccogliere informazioni sulle basi militari, danneggiare i dispositivi di sorveglianza e gli allarmi di infiltrazione nei sistemi nemici.
Tutto sembra ricordare la trama di quel terribile sabato senza fine.
Il corrispondente di Al Jazeera Raed Mousa ha discusso della serie quando è andata in onda per la prima volta, sostenendo che fosse stata ispirata ad un incidente di sicurezza realmente accaduto a Khan Yunis nel 2018. All’epoca, un’unità speciale delle forze di difesa israeliane che operava sotto copertura nella Striscia fu smascherata. L’incidente si è concluso con una sparatoria che ha portato alla morte di sette uomini di Hamas e un ufficiale dell’IDF.

“Con questa serie, Hamas aspira a presentare una narrativa palestinese opposta a quella israeliana e a sottolineare il progresso delle forze di resistenza e le sue capacità di pianificazione e combattimento” ha spiegato Mousa.
Il capo del dipartimento di produzione artistica di Hamas, Mohammed Soraya, ha dichiarato ad Al Jazeera che la serie è anche una forma di battaglia “mentale”, che ha costretto tutta la produzione ad un estrema flessibilità e creatività, avendo a disposizione per l’intera produzione il budget irrisorio di 90.000 dollari, pur essendo riusciti a girare 30 episodi in sei mesi.
“Non avevamo vere e proprie location per le riprese a Gaza, quindi abbiamo girato in luoghi reali all’interno delle città, di giorno, utilizzando la luce naturale, tra i campi e vicino al confine” ha spiegato Soraya. “Ciò ha reso molto difficile realizzare buone riprese. Abbiamo filmato per strada, sul lungomare di Gaza City, e alcuni membri della troupe hanno lavorato anche gratuitamente, su base volontaria”.

La maggior parte degli attori sono palestinesi locali, alcuni dei quali dilettanti. Soraya ha anche spiegato che Hamas non stava cercando di trarre profitto dallo spettacolo, e che il suo obiettivo era invece quello di inviare un messaggio al popolo palestinese affinché trovasse una “motivazione” per combattere contro il nemico israeliano.
Naturalmente nello spettacolo non compaiono attori israeliani. “Questa è stata la sfida più significativa: interpretare personaggi israeliani e renderli credibili per lo spettatore”, afferma Soraya, che spiega quanto gli attori abbiano lavorato duramente per interpretare i membri dello Shin Bet.
L’attore Zohair Al-Belbisi, 65 anni, per ritrarre realisticamente un agente dello Shin Bet ha incontrato un gruppo di prigionieri palestinesi che erano stati rilasciati dalle carceri israeliane per saperne di più.
Va ricordato che l’industria cinematografica e televisiva nella Striscia di Gaza è fiorita negli anni ’50, ma negli ultimi 20 anni – ovvero con l’ascesa di Hamas – il numero di serie era diminuito in modo significativo a causa dei budget ridotti.
Tuttavia, circa due mesi dopo aver preso il controllo della Striscia nel 2007, Hamas ha fondato una propria società di produzione.

È difficile stabilire con certezza se “Il pugno della libertà” si sia realmente ispirato al piano di attacco di Hamas contro Israele. Tuttavia, l’ammirazione di Sinwar per lo spettacolo, così come il collegamento che ha stabilito tra questo e ciò che poi è stato preparato dall’ala militare di Hamas, sembrano lasciare poco spazio ai dubbi: “Attaccheremo le basi militari e passeremo dalla difesa all’offensiva, costi quel che costi“, dice il personaggio di Abu Anas ai combattenti della serie. E aggiunge: “Questo è l’attacco più violento che il nemico abbia mai subito: le armi sono pronte e voi siete pronti. Il giorno dell’attacco paralizzeremo tutta la sorveglianza aerea per 30 minuti in modo che non siano in grado di rilevarci mentre ci infiltriamo nel confine. La nostra operazione danneggerà Israele e creerà ulteriori unità di combattimento anche fuori da Gaza, per la liberazione di tutta la Palestina.”
Persino il personaggio di Abu Anas ricorda lo stesso Sinwar, e il suo discorso riesce a confondere l’orami labile confine tra finzione e realtà.

Fist of the Free”, infatti, illustra le ambizioni di Hamas e le sue aspettative su se stessa come organizzazione che continua a evolversi e professionalizzarsi, come un vero esercito. Più di ciò, dimostra la sua comprensione di una cultura israeliana che santifica il valore della vita, proprio come più volte ha dichiarato Sinuar: “Faranno di tutto per i loro ostaggi, e in questo modo potremo ottenere il rilascio dei nostri prigionieri esattamente come è successo con il rilascio di Gilad Shalit” spiega l’alter ego Abu Anas, mentre si preparano a lanciare l’attacco.
Gli autori sono andati persino oltre, filmando una scena che descrive la reazione iniziale del governo israeliano all’attacco: “Il Paese sta vivendo un evento drammatico di cui non ci possiamo capacitare.”
O forse si. Si sarebbe potuto evitare con un uso più capillare dell’esercito e dell’intelligence, come l’esercito israeliano sta già cercando di investigare, nonostante le resistenze del premier e del suo governo.
Fatto sta che il piano segreto della serie è diventato una profezia che si autoavvera. Persino molto peggio di come era stato previsto nella fiction.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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