Storia e storie di un simbolo
È uno dei simboli ebraici più noti e facilmente riconoscibili, il tallit (al plurale tallitot). A Roma lo chiamano talled. Per i non ebrei è semplicemente il manto o scialle della preghiera, che gli ebrei – maschi in ambito ortodosso, maschi e femmine nei gruppi più liberal – usano in sinagoga o quando celebrano alcuni eventi speciali come circoncisioni, bar/bat mitzwà, matrimoni. Va certamente annoverato tra gli oggetti presenti in ogni casa ebraica, anche se non frequentemente usati (e sebbene i frequentatori del ‘tempio’, come in Italia vengono chiamate le sinagoghe, lo tengano lì, al loro posto, dato che di shabbat non lo si può trasportare). Ma da quando si ‘indossa’ il tallit? Che scopo ha? Quali norme ne regolano la fattura e l’uso? E che tipo di norme: scritte nella Torà o ricevute dalla tradizione rabbinica? È un oggetto sacro oppure no? Cosa significa davvero il tallit per il mondo ebraico? Andiamo con un po’ di ordine.
Nella Torà non si parla mai di tallit. Dunque è un indumento rituale che entra nella vita ebraica in epoca postbiblica, probabilmente nel periodo mishnico-talmudico. Se ne discute nel trattato Menachot (41a-43a), da dove apprendiamo che, con i cambiamenti sociali e i traumi politici intercorsi, gli ebrei stavano abbandonando la pratica di una mitzwà importante: il mettere le frange, le tzitzit (si dovrebbe dire tzitziot), ai vestiti che avessero quattro angoli (questo sì è un comando della Torà, prescritto in Bemidbar/Nm 15,37-41) e in Devarim/Dt 22,12). Per contrastare questo pericolo, iniziò la prassi di indossare, almeno in alcuni momenti del giorno e soprattutto di shabbat, un mantello rettangolare al quale si potessero applicare le tzitzit.
Con il tempo i più religiosi iniziarono a portare questo manto con le frange nel quotidiano: era nato il tallit qatan (qatan significa piccolo, in forma ridotta). Ma restò in uso anche il tallit grande, per così dire, da cerimonia, quello bello che usa anche chi non mette le tzitzit ogni giorno. Dunque il tallit sembra una ripresa a scopi rituali di un indumento probabilmente assai diffuso, quasi banale, nella vita ebraica dei tempi antichi, che però, avendo quattro angoli, permetteva allora – come permette oggi – di apporre le frange. Il valore del tallit, a un primo livello, sembra perciò essere meramente strumentale: le frange sono prescritte affinché, “vedendole” (quando v’è luce diurna), servano da zekher o memento di tutti i precetti della Torà. La rilevanza del tallit, piccolo o grande che sia, dipende allora delle tziztit: la mitzwà o precetto che le riguarda è recitato mattina e sera nella preghiera, terza sezione, dello Shema‘ Israel. Nel trattato talmudico Nedarim 25a leggiamo che “il precetto delle frange equivale a tutti gli altri precetti della Torà”, il che è un modo iperbolico per sottolinearne il valore pedagogico e propedeutico a una vita tutta ispirata alla Torà.
Il tallit è dunque una specie di siepe a questo precetto-memoriale, e come tale ha sollecitato i maestri di Israele a dettagliarlo in molte halakhot. A indossarlo dovrebbe essere anzitutto chi è soggetto all’osservanza dei precetti. Quando? La tradizione ne ha regolato l’uso al mattino e nei giorni festivi, soprattutto durante il servizio divino di shacharit e mussaf; ma il suo impiego può variare tra i sefarditi e gli ashkenaziti o tra gli yemeniti e gli italiani… come varia tra ortodossi e non. Resta tuttavia, per tutti, che esso va indossato quando si recita la preghiera dell’‘amidà, che è, con l’ascolto della Torà, il cuore del culto comunitario sinagogale. Alcuni, in quel solenne momento, se ne servono per coprirsi anche il capo: non è prescritto dall’halakhà ma costituisce un atto devozionale, teso a sottolineare la piena dedizione a Dio, l’isolamento dal resto del mondo e la totale concentrazione sulla preghiera. Non sorprende che tale uso sia divenuto popolare negli ambienti chassidici e là dove si tende a imitare quel tipo di pietà religiosa.
Resta inoltre regola comune che, prima di metterselo sulle spalle, cioè quando lo si ‘indossa’, si reciti una berakhà che loda il Santo benedetto in quanto “ci ha comandato di avvolgerci nelle tzitzit” (ve-tzivanu lehit’atef be-tzitzit) e così ci si avvolge il capo e il corpo nel tallit per alcuni istanti. Si tratta di un gesto carico di significato: segna l’ingresso fisico e psicologico nella sfera del sacro, dell’‘avodat haShem, quasi separando il sacro dal profano, o meglio: abolendo la stessa distinzione tra sacro e profano ed elevando tutto noi stessi, anima e corpo, alla qedushà ossia alla santità attraverso la tefillà, la preghiera. Parimenti, indossare il tallit nei passaggi importanti del ciclo dell vita ne evidenzia il valore, proclamando adesione all’intera Torà e il desiderio di santificare tutte le dimensioni dell’esistenza (persino nelle sepolture il sudario è un tallit senza frange, perché il ricordo delle mitzwot è per i vivi e non per morti).
Nel tempo, il valore simbolico del tallit è diventato via via sempre più ampio. E sebbene esplicitamente non compaia nella Torà, in essa sono stati trovati rimandi (in Giobbe 38,13; in alcuni salmi che alludono alle ‘ali della Shekhinà’) a questo mantello, che come il cielo copre i quattro punti cardinali dell’universo. I quattro angoli o estremità – ‘arbaà kanfot – della terra alluderebbero agli esiliati: con i suoi quattro angoli frangiati il tallit sarebbe un invito all’unità del popolo, a dispetto della diaspora. Abbiamo già detto che avvolgendosi in esso è come avvolgersi in tutta la Torà, quasi come in un sefer, che è un rotolo appunto… ma quest’idea di esser-avvolti è metafora, più in generale, di Dio stesso che avvolge l’intero creato con un abbraccio materno-paterno, pieno di amore e di giudizio, di chesed e di din. Simbolicamente ciò è espresso dai colori del tallit. Le regole su questo punto non sono rigide, e ricordo che il mio maestro, Paolo De Benedetti, amava ripetere che anche Dio ha il suo tallit personale: l’arcobaleno (una panoplia di colori, cifra della diversità delle creature).
Un tallit può essere di lana o di lino, ma nulla vieta che sia di seta. Neppure le dimensioni sono fissate in modo perentorio. Sul colore, vigono i costumi locali. Il mondo sefardita ha una preferenza: che esso sia totalmente bianco, mentre il mondo ashkenazita lo ‘decora’ con strisce che possono essere blu o nere. Come scrive rav Adin Steinsaltz: “In aggiunta ad essere un simbolo generale di purezza, adatto per ogni tipo di preghiera, il colore bianco simbolizza, secondo la qabbalà, l’attributo divino della misericordia. Le vesti sacerdotali, in uso nel Tempio di Gerusalemme, erano in prevalenza bianche”.
Che dire allora di quelle strisce blu (o nere)? Il blue alludererebbe appunto all’altro fondamentale attributo divino, quello della giustizia, che non può essere obliato, pena il cadere in una concezione infantile del Divino. Ma devono essere solo strisce: il tallit è bianco a strisce blu (o nere), non è blu (o nero) a strisce bianche! Potenza dei simboli: se a prevalere fosse l’attributo della giustizia, come insegna il midrash, ahinoi, il mondo cesserebbe di esistere! Quel blu è ciò che resta anche della norma sinaitica che prescriveva di colorare di tekhelet (blu? azzurro? o porpora?) uno dei fili delle tzizit (cfr. Bemidbar/Nm 15,38). Avendo perso memoria di come si ottenesse quel colore e come si tingesse quel filo delle frange, i maestri hanno stabilito che la mitzwà può essere osservata anche con le tzitzit tutte bianche (o del colore del tallit). Quel blu, o quell’azzurro, lo ritroviamo infine nella bandiera dello Stato di Israele. Afferma ancora rav Steinsaltz: “La percezione condivisa che il tallit sia una specie di divisa nazionale del popolo ebraico ha portato al design della bandiera dello Stato di Israele, che fu disegnata tenendo a mente il modello base del manto della preghiera, un tessuto bianco con strette strisce blu”. Almeno, secondo il modello ashkenazita (neppure i simboli sono politicamente o storicamente sempre corretti, cioè neutrali).