Diritti umani
È ora che l’intersezionalità includa gli ebrei

Perché antisemitismo e antisionismo sono presenti nei movimenti intersezionali? Un articolo di Tabletmag propone alcune risposte.

In un’intervista rilasciata a The Nation nel marzo 2017, l’attivista Linda Sarsour ha insinuato che nel movimento femminista non c’è posto per chi si dichiara sionista. Questa dichiarazione ha acceso un dibattito più ampio sulla prominenza di persone come Sarsour, nota per il suo supporto al movimento BDS contro Israele, e Rasmea Odeh, terrorista condannata per l’assassinio di due studenti ebrei all’Università Ebraica, nei movimenti intersezionali per la giustizia sociale in America.

Ancora una volta, gli attivisti ebrei progressisti sono rimasti soli a domandarsi se in questi movimenti c’è un posto per loro oppure no. Il problema si era già posto quando il movimento Black Lives Matters aveva accusato Israele di “genocidio” e senza dubbio si porrà ancora molte volte in futuro. Alla fine della fiera, però, checché ne dicano tutte le Sarsour di questo mondo, le questioni ebraiche sono parte del movimento intersezionale. E ciò perché l’antisemitismo e l’antisionismo sono entrambi gravi problemi intersezionali, e ogni movimento intersezionale degno di questo nome dovrebbe affrontarli. Il problema non è la teoria dell’intersezionalità. Sono i suoi attivisti che ne tradiscono i valori.

Il problema non è la teoria, ma chi se ne appropria

Lasciate che mi spieghi. Kimberlé Williams Crenshaw, accademica, avvocata e attivista, attualmente docente presso la UCLA [Università della California] e la Facoltà di Giurisprudenza della Columbia University, coniò il termine “intersezionalità” nel 1989. Secondo Crenshaw e altri, l’intersezionalità è una chiave di lettura per comprendere le interazioni fra diversi sistemi di oppressione, in quanto oggetto del suo studio sono le persone portatrici di identità multiple discriminate. L’intuizione di Crenshaw era che l’oppressione di cui facevano esperienza le donne nere, frutto dell’intersezione tra razzismo e patriarcato, era distinta dall’oppressione provata dalle donne bianche o dagli uomini neri. Cominciata come uno studio sull’unicità dell’esperienza delle donne nere, la teoria dell’intersezionalità si è fatta strada nel discorso odierno, finendo per includere un ampio spettro di categorie identitarie sovrapposte. Fuori dal mondo accademico, è divenuta uno strumento ideologico e strategico delle comunità emarginate e dei gruppi che le difendono per coordinare le forze e costruire alleanze. La teoria dell’intersezionalità dà voce agli ultimi e allo stesso tempo permette di unirsi contro l’oppressione.

Malgrado il suo enorme valore e la sua importanza, tuttavia, l’idea dell’intersezionalità può anche essere manipolata in modo da escludere gli ebrei. Ciò perché gli ebrei non rientrano nella sua definizione tradizionale di discriminazione. Diversamente da altre forme di razzismo, l’antisemitismo vede l’oggetto del suo odio (gli ebrei) come potente, dominante e privilegiato. Se gli ebrei sono oppressori, non possono far parte delle coalizioni intersezionali, e la loro esperienza di oppressione viene negata. Perciò gli antisemiti hanno vita facile a infiltrare e sabotare i movimenti intersezionali.

Il doppio standard

La ricercatrice Sina Arnold del BIM [Istituto di Berlino per la Ricerca sulla Migrazione e l’Integrazione], docente all’Università Humboldt di Berlino, nel suo From Occupation to Occupy: Antisemitism and the Contemporary Left in the United States, illustra alcuni dei modi concreti in cui si esprime questa logica: il doppio standard dell’antisionismo (l’opposizione esclusiva al diritto degli ebrei ad autodeterminarsi e ad avere uno Stato, mai messo in dubbio invece per altri popoli), il rifiuto di riconoscere il problema dell’antisemitismo e la strategia di sviare le conversazioni su di esso affermando che le accuse di antisemitismo non sono altro che proiezioni ciniche di potere politico (un esercizio di retorica simile a quello che David Hirsch ha battezzato “Formula di Livingstone”, dal nome dell’ex sindaco di Londra, Ken Livingstone, il quale, accusato di aver rivolto insulti antisemiti a un giornalista, deviò il discorso su Israele invece di rispondere direttamente alle accuse). Direi che Sarsour e i suoi sostenitori hanno utilizzato tutte e tre queste strategie in momenti diversi.

Ma al di là dell’immediato malessere e del sentimento di alienazione che le parole di Sarsour hanno provocato in molte donne ebree, la controversia riguardante lei e Odeh è sintomatica di un danno e di una beffa più profondi: la teoria intersezionale è particolarmente adatta a combattere l’antisemitismo, anche se i suoi sedicenti sostenitori rifiutano spesso di farlo. L’esclusione delle questioni ebraiche dal movimento intersezionale per la giustizia sociale permette all’antisemitismo di contagiarlo. Gli ebrei neri sono circa il 20% della popolazione ebraica degli Stati Uniti, e molti ebrei fanno inoltre parte di altre comunità emarginate (donne, persone LGBTQIA+, persone disabili, ecc.). Alcune delle comunità ebraiche negli Stati Uniti più marginalizzate dal punto di vista economico, per di più, sono religiose, il che le rende ben visibili ed esposte a un antisemitismo anche smisurato.

In tutti questi casi, l’antisemitismo accompagna ed esacerba altre esperienze di oppressione. Un attivista ebreo che ha subito molestie via Internet (il caso di molti giornalisti ebrei, me compreso), per esempio, potrebbe diventare reticente a esporsi ancora in pubblico. Gli ebrei coinvolti nella politica, indipendentemente da quello che è il focus del loro impegno, sono soggetti alle accuse di complotto per il controllo del governo americano. Il pregiudizio sulla ricchezza e il potere ebraici rende più difficile per gli ebrei di tutte le classi socioeconomiche di parlare apertamente della loro esperienza di oppressione. L’antisemitismo presente negli spazi di giustizia sociale suscita il disagio di molti ebrei che se ne allontanano, togliendo così a tali spazi la possibilità di condividere esperienze e imparare strategie. In tutte queste modalità, l’antisemitismo si interseca con altre forme di discriminazione che gli ebrei di ogni genere e identità soffrono.

Persino gli ebrei che non appartengono a comunità emarginate, oltretutto, hanno a che fare con l’antisemitismo. Gli ebrei che godono del privilegio di essere bianchi, ad esempio, devono comunque affrontare il razzismo dei suprematisti. Per un certo verso, gli ebrei di pelle chiara vivono sull’orlo di un concetto di “bianco” costruito socialmente, senza rientrare appieno in una delle due categorie binarie “persone bianche” e “persone di colore”. Nella misura in cui il movimento intersezionale riconosce i diversi sistemi di oppressione come necessariamente interconnessi, dovrebbe riconoscere anche questo legame e affrontare l’antisemitismo in tutte le sue forme, anche quando colpisce ebrei che sotto altri aspetti sono privilegiati.

L’antisemitismo è un problema intersezionale anche per i non ebrei

Gli attivisti intersezionali dovrebbero inoltre riconoscere che l’antisemitismo è spesso usato come rinforzo di altre strutture di oppressione al di fuori della comunità ebraica. Vale a dire, l’antisemitismo è una questione intersezionale non solo perché molti ebrei la affrontano come tale, ma anche perché la sua influenza maligna può colpire anche non ebrei che appartengono a comunità discriminate. Tradizionalmente, i Protocolli dei Savi di Sion e altri testi antisemiti sono stati impiegati quali strumenti di propaganda per mobilitare le forze conservatrici contro l’attivismo progressista. L’esempio più classico è l’uso che l’impero zarista fece dei Protocolli per screditare le proteste contro la monarchia. Oggi, i sostenitori della “alt-right” continuano a manipolare l’antisemitismo al medesimo scopo, utilizzando, ad esempio, l’accusa che gli ebrei hanno il controllo di Hollywood come parte di una campagna contro un film di Star Wars in cui c’erano idee antifasciste e un importante personaggio dalla pelle nera. In tal modo, l’antisemitismo diviene uno strumento per incentivare altre forme di oppressione.

Tutto questo per dire che l’antisemitismo è una sfida intersezionale. Per molti ebrei, esso interagisce con altre strutture di oppressione per togliere loro voce e forza. Il fanatismo antisemita è stato inoltre scatenato, sia storicamente sia oggigiorno, a sostegno di politiche d’oppressione. È chiaro dunque che l’antisemitismo dovrebbe essere combattuto dal movimento intersezionale.

La partecipazione ebraica nei movimenti per la giustizia sociale

Se è tanto ovvio, perché non accade? La giustificazione che ho sentito più frequentemente è che gli ebrei hanno disertato i movimenti di giustizia sociale e quindi non devono essere inclusi nell’attivismo intersezionale. È indubbio che alcuni ebrei potrebbero fare di più, così come accade nelle altre comunità. Cionondimeno, a nessun’altra comunità viene chiesto di provare la propria lealtà alla causa per poter essere accettata – è una condizione che vale solo per gli ebrei.

Oltretutto, l’affermazione che gli ebrei non si sono dati da fare nella lotta per i diritti è semplicemente falsa. Con un record impressionante di affluenza alle urne, la comunità ebraica negli Stati Uniti ha sempre rappresentato una base elettorale fondamentale per i candidati progressisti. Importanti organizzazioni ebraiche come la Anti-Defamation League e i Jewish Community Relations Councils combattono attivamente le molte forme dell’intolleranza nella cultura e nella politica. Molte sinagoghe si fanno promotrici di iniziative di giustizia sociale presso le loro comunità. E la storia dell’attivismo ebraico negli Stati Uniti vanta nomi come Abraham Joshua Heschel, Emma Goldman, Harvey Milk e Saul Alinsky.

Con ciò non voglio dire che le istituzioni ebraiche non potrebbero fare di più. Ciascuna persona, istituzione e comunità dovrebbe continuamente rimettersi in discussione e cercare di migliorarsi. La storia dell’impegno ebraico nella giustizia sociale non cancella la nostra responsabilità di portare avanti quell’impegno anche nelle nostre vite. La mia intenzione qui è confutare la narrativa, profondamente discutibile, che le questioni ebraiche sono escluse dal movimento intersezionale di giustizia perché gli ebrei non meritano di farne parte.

Antisemitismo e antisionismo

Infine, va sottolineato che antisionismo e antisemitismo, pur non essendo uguali, sono inestricabilmente collegati. Non va bene accettare noi ebrei a patto che siamo docili, individualisti, americani e alla mercé della maggioranza. Anche i nostri diritti di comunità sono importanti. Il nostro diritto di essere preoccupati per i nostri fratelli ebrei nel mondo è importante. Il nostro diritto di definirci come nazione e non essere limitati alla definizione angusta e cristiano-centrica di “religione” che ci è stata addossata è importante. Il nostro diritto alla difesa e a essere rappresentati nel mondo è importante.

Quando gli attivisti condannano i “sionisti”, il più delle volte, consapevolmente o meno, attingono a una tradizione sovietica di antisemitismo di sinistra che fa uso del termine “sionista” per indicare gli ebrei tout court. La maggioranza degli ebrei americani è legata a Israele e crede nel suo diritto di esistere, perciò è esposta all’esclusione dai movimenti per la giustizia sociale.

L’odio per i “sionisti” è continuamente esercitato come meccanismo di esclusione dal dibattito intersezionale degli attivisti e delle istituzioni che maggiormente rappresentano l’ebraismo americano. Secondo la formula antisionista, come ebrei possiamo sperare in un posto a tavola solo se prima tagliamo i ponti con i nostri amici, familiari, maestri e correligionari e smantelliamo le (terribilmente sioniste!) istituzioni che la comunità ebraica americana ha costruito nel corso di decadi per combattere l’antisemitismo.

La maggioranza dei sionisti negli Stati Uniti non si oppone al nazionalismo palestinese. Anzi, quella della partecipazione a un’azione comune contro l’oppressione è un’idea che ci attrae. Il sionismo è il movimento di liberazione ebraico, e come tale ha il potenziale non solo per coesistere con altri movimenti di liberazione, ma anche per dare loro supporto ed energia, dall’emancipazione femminile al nazionalismo palestinese. A me piacerebbe manifestare accanto, e non contro, personaggi come Linda Sarsour, e lavorare al loro fianco per un futuro in cui la liberazione e la sicurezza di ebrei e palestinesi sono garantiti da una soluzione a due Stati.

L’antisemitismo e l’antisionismo sono questioni intersezionali. Il movimento intersezionale dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per affrontarle e per includere gli ebrei e le istituzioni ebraiche. Le dichiarazioni imbarazzanti di Linda Sarsour, tuttavia, sono sintomatiche di un problema più grande all’interno dei movimenti per la giustizia sociale negli Stati Uniti.

Il discorso intersezionale ha dato agli attivisti la forza di formare alleanze cruciali, di portare al centro le voci più emarginate e di stabilire fronti compatti contro nemici agguerriti. I movimenti intersezionali possono generare grande solidarietà e progresso. Eppure, gli attivisti stanno permettendo che il valore di questi movimenti venga indebolito da una manciata di persone determinate a sfruttare queste cause per promuovere odio ed esclusione.

È ora di respingerle. È ora che l’intersezionalità includa gli ebrei.

Traduzione di Silvia Gambino

Benjamin Gladstone
Collaboratore presso Tablet Magazine

Benjamin Gladstone studia Ebraistica e Studi del Medio Oriente presso la Brown University. Ha scritto, tra gli altri, per The New York Times, The Forward e The Tower.


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