Cultura
Ebraismo e nazionalità: conversazione con André Aciman

Quando “Casa” è quel Mediterraneo che ormai vive solo nel mito e definire se stessi diviene un dialogo in continuo mutamento con i luoghi, le persone, le memorie.

Per millenni, il popolo ebraico, è migrato ed è immigrato. A partire dall’occupazione della Giudea da parte dell’imperatore romano Tito, passando per la Shoah, e fino alla creazione dello Stato di Israele, milioni di persone hanno attraversato Paesi, continenti e mari, fermandosi ai quattro angoli del pianeta.

Ovunque gli ebrei si stabilissero, arrivavano a confrontarsi con una popolazione locale di cultura, lingua e spiritualità diversa. Alcuni tra i nuovi arrivati erano poco interessati ad assorbire le tradizioni delle terre che ora abitavano: già parte di un popolo, non sentivano il bisogno di identificarsi con un altro. La maggior parte ci ha invece provato, trovando però difficile interiorizzare completamente la storia, le usanze e gli ideali di una nazione senza rinunciare a una parte della propria identità ebraica. Soprattutto quando i valori e il modo di concepire la vita suggeriti dalla cultura del luogo erano percepiti come in conflitto con l’ebraismo.

Spesso gli ebrei non si fermavano a lungo: generazione dopo generazione, per sfuggire a persecuzioni o alla ricerca di una qualità di vita migliore, le realtà con cui venivano a contatto si moltiplicavano. E dunque, per integrare le usanze del luogo nella propria quotidianità, non era solo l’identità ebraica a dover far spazio, ma anche quei costumi e insegnamenti che i propri antenati avevano assorbito altrove.

È con la testa piena di questi pensieri che mi accingo a incontrare André Aciman, saggista, professore e autore di romanzi, inclusi l’autobiografico Ultima notte ad Alessandria e Chiamami col tuo nome, il cui adattamento cinematografico ha ricevuto un Oscar come Migliore sceneggiatura non originale.

 

Il mio Ebraismo? “Un’identità laica, ma che intacca l’individuo”

All’esterno è in corso la terza bufera di neve in tre settimane a New York, città dove Aciman si è stabilito 50 anni fa. Il percorso della sua famiglia per arrivare qui è stato lungo, pieno di imprevisti, sfumature, e momenti di svolta. Davanti a una tazza di caffè, ci ritroviamo a discutere di cosa significhi per lui l’ebraismo e di come, nel corso della sua vita, abbia interagito con i concetti di nazionalità e di casa, e di come abbia influenzato le sue opere.

L’ebraismo internazionale è una mentalità,

un senso di autoironia del tutto

“Per me l’ebraismo, più che una religione, è stato sempre un’etnia, perché dal punto religioso non ci ho mai capito niente,” esordisce Aciman. Cresciuto in una famiglia dove molti membri si erano sposati con non ebrei, l’autore ricorda che da giovane si era rifiutato di fare il Bar Mitzvah.

La sua è una nozione di ebraismo più laica, ma che va comunque a intaccare l’identità dell’individuo. Per lui, “l’ebraismo internazionale è una mentalità, un senso di autoironia del tutto, divenuta emblematica nei film di Woody Allen.” Questo approccio alla vita lo ha portato, nelle varie fasi della sua vita, a sviluppare un particolare senso di solidarietà nei confronti di altri ebrei e a trovarsi a suo agio soprattutto con loro.

Quando la conversazione si sposta sul possibile conflitto tra ebraismo e nazionalità, l’autore ha una chiara posizione, influenzata soprattutto dalle sue esperienze personali. “Esiste, non può che esistere,” afferma.

Nato ad Alessandria d’Egitto nel 1951, da una famiglia ebraica di origini italo-turche, Aciman è cresciuto come apolide. Non erano egiziani, perché stranieri. Non si identificavano in alcun modo con la Turchia, che la sua famiglia aveva lasciato nel 1905 e dove i rapporti tra stato e comunità ebraica erano stati particolarmente tesi e violenti nei decenni precedenti.

“Volevo essere francese,” ricorda Aciman. E per un certo tempo la famiglia dell’autore aveva creduto di esserlo, perché la nonna era madrelingua francese. Ma scoprirono poi che l’unico legame con la Francia era il fatto che i propri antenati avessero studiato alle scuole francofone dell’Alleanza Israelitica Universale, un’associazione culturale ebraica con sedi nell’Africa del Nord e Medio Oriente.

La loro identità nazionale era a dir poco indefinita, praticamente inesistente. Erano però, ebrei, anche se poco religiosi, e ciò li legava a tanti altri in Egitto. La comunità ebraica era molto integrata nell’allora cosmopolita Alessandria, ricorda Aciman. Si potevano distinguere due categorie: coloro che erano giunti in Egitto più recentemente, solitamente con origini europee, inclini a uno stile di vita occidentale e quelli autoctoni, nel paese da molte generazioni.

Entrambi i gruppi costituivano la cerchia stretta della famiglia dell’autore. “La maggior parte dei nostri amici erano ebrei, anche lì si dava preferenza alla gente ebrea e i miei più cari amici erano ebrei.”

Nel 1965, quando il regime pan-arabo del generale Nasser si fece crescentemente ostile nei confronti degli ebrei, la famiglia Aciman fu cacciata dall’Egitto. Grazie a lontani antenati originari di Pisa e Livorno, riuscirono a ottenere la cittadinanza italiana. Nel suo ultimo libro, Ultima notte ad Alessandria, Aciman cita tra questi parenti anche Giuseppe Abramo Pardo-Roques, presidente della comunità Israelitica Pisana, trucidato nella sua dimora nel 1944 in seguito all’irruzione di uno squadrone nazista.

Ma Aciman non riusciva a identificarsi con questa sua nuova nazionalità. Era stata una transizione molto “innaturale”, ricorda l’autore, che non parlava neppure una parola di italiano ai tempi.

 

La scoperta dell’America: basta nascondersi

Una volta negli Stati Uniti, in Aciman, e nello spazio vuoto lasciato da una nazionalità fluida, si è fatta largo una nuova maniera di concepire e vivere la sua identità ebraica. Se in Egitto e in Europa, questa lo influenzava in maniera nascosta, quasi invisibile, a New York ha invece iniziato a manifestarsi in modo più esplicito.

In uno dei miei romanzi, uno dei protagonisti ha nove personalità,

e non tutte si conoscono tra di loro.

Ad Alessandria, a Roma, nessuno gli aveva mai rivolto la domanda, “Sei ebreo?”, ricorda l’autore. La gente intuiva solo che ci fosse qualcosa di inusuale. “L’ebraismo, in quel mondo, si lascia intendere, ma non si pronuncia”, spiega Aciman. “Non si dice perché non occorre dirlo, ma il non dirlo vuol dire qualcosa. In America, la gente invece dice, sono ebreo”. Di questa filosofia, l’autore ne ha fatto un mantra. ”Io voglio che la gente sappia che sono ebreo, nasconderlo non mi va più.”

Mi racconta dell’unica e ultima volta in cui è ritornato ad Alessandria, nel 1995. Della città in cui era cresciuto, era rimasta solo una sinagoga, Eliyahu Hanavi. Tutto il resto era scomparso. Aciman ricorda di essersi recato al tempio alla ricerca di un luogo familiare, ma di essere stato fermato da una guardia egiziana con un mitra sottobraccio. L’accesso alla sinagoga era già allora controllato strettamente, forse perché dopo decenni sotto un regime, di ebrei in Egitto ne erano rimasti meno di 300. “La guardia mi ha chiesto, ma sei ebreo?” ricorda l’autore. “Si, sono ebreo!, gli ho risposto. Era sorpreso che lo avessi esclamato immediatamente, non aveva mai sentito una cosa del genere.”

 

Personaggi in cerca di identità

La sua identità ebraica e la mancata appartenenza a uno specifico paese hanno fortemente influenzato gli scritti di Aciman. I suoi personaggi spesso non sono quello che dicono di essere e non mostrano il loro vero volto neppure a se stessi: questa fascinazione con “la gente che si nasconde” e la sfiducia nei confronti di come uno appare derivano dai tempi in cui era l’unico ebreo a scuola, dove era “sempre sull’attenti, non mi fidavo,” racconta l’autore. L’indefinita nazionalità si rispecchia invece in personaggi caratterizzati dalle molteplici identità, origini e fedi. “In uno dei miei romanzi, uno dei protagonisti ha nove personalità, e non tutte si conoscono tra di loro.”

“Casa” rimane nel continuo movimento e in quel mito del Mediterraneo

come ponte tra civiltà, centro della cultura globale

Anche nelle sue opere emerge quel senso di solidarietà e affinità tra ebrei che Aciman interpreta come essenza dell’ebraismo. In Chiamami col tuo nome, incentrato sul rapporto e l’attrazione tra il 17enne Elio e il 24enne Oliver, i due protagonisti sono entrambi ebrei. Il loro è un “ebraismo diluito”, come lo definisce l’autore, “perché questa è la mia esperienza, non sarei stato capace di descrivere una famiglia praticante”, ma che rimane comunque un elemento “molto importante. La prima cosa che Elio nota in Oliver è che porta la stella di Davide al collo.” È questa identità condivisa a spronare il rapporto tra i due e a dare origine a una grande fiducia tra di loro, portandoli a esporsi l’uno all’altro come non avevano mai fatto prima. “Sanno che un ebreo non può far del male ad altri ebrei,” prosegue.

Aciman ha vissuto in molti luoghi, ha ottenuto la cittadinanza italiana e poi americana ed è stato ebreo tutta la vita. Gli chiedo se esista un luogo che possa chiamare casa. Dal momento che l’unica costante è stata la parte ebraica della sua identità, “dovrebbe essere Israele, ma ci sono stato solo due volte, e dire che questo è il mio paese… proprio no,” mi risponde. “L’unico posto dove mi trovo più o meno a mio agio è Roma. Un posto che odiavo all’inizio, ma adesso ci vado ogni anno. Però è un posto che forse odierei, se dovessi davvero abitarci.”

Dunque casa non c’è, neppure dopo le tante peregrinazioni. “Casa” rimane nel continuo movimento e in quel mito del Mediterraneo come ponte tra civiltà, centro della cultura globale, che ora a causa di guerre, dittature, crisi dei migranti e un crescente senso di diffida nei confronti di ciò che è lontano e diverso, sembra essersi ridotto a un distante ricordo. Per Aciman, come per molti altri ebrei che per secoli hanno continuato a spostarsi, senza mai davvero allontanarsi da quelle coste.

Giulia Morpurgo
Collaboratrice
Giulia Morpurgo, 24 anni , è una giornalista finanziaria di casa a Londra. Nata e cresciuta a Milano, ha passato gli ultimi cinque anni tra la capitale britannica e New York. E’ appassionata di politica monetaria, di quasi tutto ciò che ha più di mille anni e soprattutto di Inter.

6 Commenti:

  1. Bravissima, bell’articolo, come gli altri. Mi hai fatto incuriosire su questo autore, che non ho mai letto…lo faró!


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