Hebraica Nizozot/Scintille
Ironia e parodia, due strade per evitare l’idolatria (con l’aiuto di Umberto Eco)

E se guardassimo le cose con uno sguardo inconsueto? Se provassimo a uscire da noi stessi e a osservarci con quel distacco che porta a relativizzare tutto? Un viaggio con Umberto Eco, Woody Allen e Mel Brooks

L’ironia è anzitutto la capacità di prendere le distanze da qualcosa/qualcuno con atteggiamento critico, per mostrare l’esistenza di un altro “punto di vista interno” e in tal modo relativizzare una pretesa unicità o univocità di sguardo e valutazione. Se benevola, è costruttiva, denota intelligenza e, se declinata come auto-ironia ovvero ironia su se stessi, rivela persino una certa umiltà, o almeno la consapevolezza che il mondo non gira su noi stessi (“il sole sorge e tramonta indipendentemente dai nostri meriti o demeriti” dicono i maestri).

Il suo contrario è sempre una qualche forma di auto-referenzialità. Se si spinge oltre alla critica costruttiva, e demolisce per il gusto di demolire, l’ironia diviene sarcasmo. La letteratura midrashica conosce questi linguaggi, ad esempio quando immagina un giovane Abramo che ha appena distrutto gli idoli del negozio paterno e che, per giustificarsi dinanzi a suo padre Terach, inventa la storia che quegli idoli hanno litigato di brutto tra loro per chi dovesse mangiare prima, e con dei bastoni se le sono date di santa ragione fino al distruggersi l’un l’altro… Anche il profeta Isaia non esita a usare le armi dell’ironia e del sarcasmo verso i costruttori di idoli, che con la stessa legna si scaldano dal freddo, si cucinano i pasti e con quel che resta intagliano immagini a cui poi si prostrano.

Invece la parodia, per i suoi aspetti comici e caricaturali, è un genere più difficile da trovare nella letteratura ebraica, perché è l’arte di rinarrare una storia da una prospettiva opposta o da un “punto di vista esterno”, il che richiede di uscire dalla logica religiosa, e questo i maestri non lo fanno, né si poteva fare prima dell’avvento della modernità. Quest’ultima costituisce non solo una critica della tradizione ma anche una sua rilettura secolarizzata, tale da capovolgerne la prospettiva nel suo contrario. Per alcuni storici della cultura siffatto capovolgimento (religioso) prende avvio con il primo romanzo moderno ovvero i cinque libri – e sarà un caso che sono cinque? – del Gargantua et Pantagruel di François Rabelais.

Nel nostro orticello italiano la mentalità controriformista ha bloccato molte velleità parodistiche del fenomeno religioso fino alla metà del XX secolo, e dove non giunse quella mentalità giunse una diffusa, sostanziale ignoranza religiosa. Tuttavia, esempi preclari di parodia applicata proprio alla letteratura e ai costumi nazionali si trovano nel Diario minimo di Umberto Eco, apparso esattamente sessant’anni fa, più volte ristampato, e divenuto un piccolo classico del pensiero critico sulla società italiana del secondo dopoguerra. Nella seconda edizione di quella raccolta di saggi troviamo una curiosa (e all’epoca rara) pagina che osa parlare della Bibbia in termini parodistici, o almeno ironici. Come?

Eco immagina che del Libro dei libri arrivi il manoscritto nella redazione di un grande editore, il quale diligentemente lo invia a un lettore professionale per un parere, anzi “un rapporto di lettura”. Eccoci catapultati in una prospettiva altra, radicalmente diversa da quella tradizionale, specie religiosa. In tale rapporto all’editore (e ricordiamo che Eco iniziò la sua carriera come redattore in Bompiani) l’anomimo recensore scrive: «Quando ho cominciato a leggere il manoscritto e per le prime centinaia di pagine, ne ero entusiasta. È tutto azione e c’è tutto quel che il lettore oggi chiede a un libro di evasione: sesso (moltissimo), con adulteri, sodomia, omicidi, incesti, guerre, massacri, e così via». Avreste mai pensato di descrivere o presentare così l’incipit del Testo sacro? Il rapporto di lettura continua, e si noti il rimando al grande romanzo francese: «L’episodio di Sodoma e Gomorra con i travestiti che vogliono farsi i due angeli è rabelasiano, le storie di Noè sono puro Salgari, la fuga dall’Egitto è una storia che andrà presto a finire sugli schermi… Insomma, un vero romanzo fiume, ben costruito, che non risparmia i colpi di scena, pieno di immaginazione, con quel tanto di messianismo che piace, senza dare nel tragico».

Ironico e acuto, Eco riassume la Torà in un breve paragrafo; difficile da “smentire” sul piano letterario e con quel pizzico di concettualità teologica (il messianismo) di cui, in quanto filosofo del medioevo, Umberto Eco era un profondo conoscitore. Alla fine gli ultimi due paragrafi sono un accorato avvertimento all’editore, da parte del lettore professionale, dei rischi che va ad assumersi se mai pubblicherà questo manoscritto. C’è sempre l’altra faccia della medaglia:
«Poi andando avanti mi sono accorto che si tratta invece di un’antologia di vari autori, con molti, troppi, brani di poesia, alcuni francamente lamentevoli e noiosi, vere e proprie geremiadi senza capo né coda. Ne viene fuori un omnibus mostruoso, che rischia di non piacere a nessuno perché c’è di tutto. E poi sarà una grana reperire tutti gli autori per i diritti…».

Così Eco suggerisce di bypassarli cercando di trattare con il Curatore, di cui però non riesce a trovare il nome «nemmeno nell’indice, come se ci fosse ritegno a nominarlo». E qui il nostro sorriso non sa più trattenersi: dice il vero smerciandolo per cosa strana, quasi un’eccentricità; e come si fa a mandare in stampa un romanzo così complesso senza dire chi è l’Autore? Mica si può fare come Spinoza con il Tractatus o come Joyce con Ulysses alias l’ebreo Leopold Bloom (altro Everest di parodia letteraria)?

Alla fine, in veste di anonimo recensore del Libro per antomomasia, Eco avanza l’idea che sarebbe meglio cominciare a pubblicare soltanto i primi cinque libri e vedere come vanno le vendite… Così «andiamo sul sicuro», conclude, magari «con un titolo come I disperati del Mar Rosso». Nelle pagine a seguire di Diario minimo ecco l’ironica e parodistica presentazione anche dell’Odissea, della Divina Commedia, della Gerusalemme liberata, dei Promessi sposi, di Proust e dello stesso (immancabile) James Joyce.

Per trovare altre versioni parodiali della Bibbia, in seno però al mondo ebraico, dobbiamo rivolgerci al cinema americano, a Woody Allen (nato Königsberg) e Mel Brooks (nato Kaminsky), nelle cui pellicole la riscrittura ora ironica ora sarcastica delle storie bibliche, a cominciare dai Piani Alti fino Mosè, è spudorata al limite della blasfemìa. Nondimeno, può essere anche letta come antidoto a una narrazione che, se ridotta alla sfera del religioso, perde la sua carica di decentramento e smantellamento di miti e luoghi comuni, rischiando il fondamentalismo. Allen e Brooks lasciano invece riaffiorare un’autocritica che di fatto è una moderna versione, secolarizzata, dell’anti-idolatria profetica e midrashica. Food for thought.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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