Hebraica Nizozot/Scintille
Israel di Ruzhin, il volto enigmatico e magnetico del chassidismo

Ritratto del rebbe amante della bellezza e delle gioie della vita

Siamo abituati a pensare (o immaginare) i maestri del chassidismo come anziani rebbe con la barba, esperti di qabbalà che hanno studiato a lungo, addirittura mistici estroversi propensi alla taumaturgìa o asceti capaci di commoventi derashot… La figura di Israel di Ruzhin (1796-1850), un pronipote per ramo paterno del Grande Magghid, Dov Ber di Mezeritch (il fedele discepolo del Ba‘al Shem Tov e considerato il vero organizzatore-teorico del movimento chassidico), sembra contraddire quell’immagine bella ma riduttiva. Il suo nome completo era Israel Friedman e fu cresciuto come molti altri rampolli dei primi chassidim. Nel medaglione che ne ha fatto Elie Wiesel, tardo cantastorie del movimento: “Israel venne fidanzato a sette anni, sposato a tredici e a sedici [alla morte del fratello maggiore] ascese al trono rabbinico… Vestiva con eleganza, sceglieva gli abiti più costosi; era bello e ricco, e amava la bellezza quanto la ricchezza; in seguito ebbe un palazzo con servi e serve, ori e argenti, cavalli e carrozze… il suo seguito arrivava fino a cento persone: segretari, cuochi, cocchieri, musicisti – aveva assunto una banda klezmer – più i suoi fedelissimi…” (così si legge in Celebrazione hassidica. Ritratti e leggende, ed. francese 1972). No, questo stile di ‘vita regale’ non è affatto una leggenda, documentato com’è da molte fonti storiche, secondo le quali non portava la barba ma solo un bel paio di mustacchi alla moda. Ma chi era davvero Israel di Ruzhin e perché la sua fama di maestro del chassidismo è giunta fino a noi?

I testimoni lo descrivono come un ragazzo che non ebbe modo di istruirsi, quasi illitterato – per quanto strano possa sembrare in ambito ebraico – che a fatica sapeva firmare il suo nome. Tuttavia era dotato per natura di un’istintiva, vivace intelligenza e di un’innata autorevolezza, che intercettava i bisogni degli ebrei comuni a cui elargiva pillole di saggezza popolare che lo facevano amare da tutti (e invidiare da molti) e forse proprio per il suo eloquio semplice, l’approccio pragmatico, la mancanza di erudizione. Paradossalmente, pur in mezzo alle ricchezze e agli onori che gli venivano da seguaci ed estimatori, privatamente era sobio e quasi ascetico, dormiva poco ed era sempre preso ad accogliere, ascoltare, consigliare e mediare dispute presentate da numeri crescenti di ebrei, chassidim e non, e persino da non ebrei. Non studiava ma pregava molto e a suo modo, avendo abbracciato l’idea del Ba‘al Shem Tov che HaQadosh Baruch Hu può ben essere servito anche con il proprio corpo, anzi, il servizio divino attraverso la corporeità è superiore allo studio; non teneva sermoni, soltanto poche esortazioni tramite parabole e racconti; non scriveva né distribuiva amuleti, come erano soliti fare i suoi pari.

Tra gli insegnamenti trasmessi a suo nome – riportati anche nella famosa antologia di Martin Buber – si trova: “Ci sono tzaddiqim che servono Iddio benedetto attraverso la Torà e la preghiera, e tzaddiqim che Lo servono attraverso il mangiare, il bere e gli altri piaceri mondani, così che sollevano tutte queste cose alla santità… È Dio che li ha creati così, perché vuole che gli uomini non restino prigionieri degli appetiti, ma che diventino liberi in essi. Questo è appunto il compito di quegli tzaddiqim: rendere liberi gli esseri umani. I primi sono i signori del mondo visibile; i secondi sono i signori del mondo segreto… come Giuseppe che [secondo il midrash] si arricciava i bei capelli e serviva Iddio con le gioie di questo mondo”. Come non vedere in questa distinzione un pertugio all’idea, estrema e perniciosa ma ben individuabile in certa mistica chassidica, della ‘redenzione attraverso il peccato’, studiata da Gershom Scholem?
La diversità di Israel di Ruzhin era evidente, enigmatica, criticabile e criticata; non di meno compensata ampiamente da un carisma, un afflato magnetico che non si incrinò, anzi si incrementò con le traversie giudiziarie da cui fu travolto e che lo portarono tra il 1838 e il 1840 nelle prigioni dello zar di tutte le Russie, a Kiev, per circa due anni. Si trattò del ‘caso Ushits’, dal nome di un distretto della Podolia (la culla del chassidismo) dove due ebrei informatori, ossia due delatori, furono trovati uccisi, quasi certamente per mano di correligionari, e sulla cui morte le autorità governative aprirono le indagini arrivando ad arrestare ben ottanta ebrei, tra cui il rebbe di Ruzhin, forse per favoreggiamento o copertura o istigazione, accuse vaghe di corresponsabilità morale… tese a giustificare la detenzione, fino a che venne rilasciato per insufficienza di prove. Tenuto sotto controllo, il rebbe decise di fuggire dai territori russi e di riparare clandestinamente in Austria, non senza trovare nuove ostilità. I russi ne chiesero l’estradizione, ma Israel trovò chi lo protesse con una raccomandazione alla corte di Vienna. Si insediò così in una nuova residenza a Sadgora, presso Czernowitz in Bukovina, dove rimase sino al termine dei suoi giorni, attorniato da una nuova corte di seguaci e generosi supporter. La dinastia chassidica di Ruzhin, dopo il primo conflitto mondiale, si stabilì infine a Vienna e a Lipsia.

L’enigma di questo maestro incolto ma carismatico, che da giovane aveva avuto l’endorsement di uno dei maggiori maestri chassidici d’inizio Ottocento ossia Avraham Yehoshua Heschel di Apt, sta forse nel suo populismo? O in un mix di nobilissima ascendenza familiare e di saggezza naturale, venata da un forte senso dell’umorismo e di savoir vivre? Ancora Wiesel ipotizza che “era troppo moderno e liberale per compiacersi di sortilegi e miracoli: ad esempio, venuto a sapere che gli ebrei della sua città subivano i maltrattamenti di alcune canaglie, invece di pregare per loro ordinò ai più giovani di organizzarsi in gruppi di autodifesa. Suggeriva di restare sempre allenati fisicamente: lui stesso andava a cavallo, faceva esercizi e tagliava la legna ogni mattina”. A chi gli chiedeva come ‘spezzare i cattivi istinti’, rispondeva: “Un istinto non si può spezzare, ma se preghi e studi e lavori seriamente, ciò che è cattivo nei tuoi istinti svanirà da solo”.
Non v’è da stupirsi che qualcuno lo abbia scambiato per un messia e che alla fine dei suoi giorni i figli e i seguaci percepissero attorno a lui, accanto a una certa malinconia, anche un’aura di fervore messianico. Il fervore lo spingeva verso l’alto e la malinconia lo rimandava in basso: “Doveva continuamente discendere – spiegò – per redimere le anime che erano precipitate…”. Più luriano e più chassid di così!

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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