Cultura
Israele: fotografia di un demografo

Intervista a Sergio Della Pergola, professore emerito dell’Università ebraica di Gerusalemme

Come si compone la società israeliana oggi? Sergio Della Pergola, demografo professore emerito dell’Università ebraica di Gerusalemme, nel giorno successivo al 73esimo compleanno dello stato, ci fornisce una fotografia dettagliata di cos’è Israele attualmente. L’analisi dei dati demografici infatti permette non solo di capirne il tessuto sociale ma anche le ricadute politiche.
“Bisogna prima di tutto partire dall’identità di Israele, ossia chiedersi qual è la sua ragione d’essere”, spiega Della Pergola “Questo stato è nato nel 1948 da un’esigenza storica e ideale ma anche pratica di esprimere uno stato sovrano ebraico. E questo è stato possibile grazie al piano di spartizione della Palestina mandataria dell’Assemblea dell’Onu in due stati, uno ebraico e uno arabo. Questa era la dicitura, non uno stato israeliano e uno palestinese. E questa è l’identità di Israele, proclamato stato ebraico indipendente da Ben Gurion. Da allora i dati demografici sono in continuo movimento, naturalmente, e oggi, a 73 anni dalla sua nascita, Israele si compone al 79% di ebrei, di cui circa il 5% di non ebrei aggregati a famiglie ebraiche, ovvero parenti e figli non ebrei di matrimoni misti avvenuti in diaspora. Questi sono perfettamente integrati nella componente ebraica della società israeliana, incluso nel servizio militare. Poi c’è una minoranza araba, pari al 21% della popolazione, che a sua volta si compone di una maggioranza musulmana e una minoranza di arabi cristiani ortodossi e di drusi, che si arruolano, a differenza degli altri arabi, nell’esercito israeliano”.

In questo scenario, che valore ha attualmente l’Alyah?
“Nei primi anni di vita dello stato, era fondamentale per il suo accrescimento, ma già dagli anni ’60 Israele ha un accrescimento naturale, cioè basato sulla natalità. Come tutti gli altri stati, oggi vive di proprie forze demografiche interne. La natalità è alta rispetto agli altri paesi: la media è di tre figli e negli ultimi anni c’è stata una convergenza anche della componente araba che attualmente, dopo anni di crescita elevatissima, si aggira sugli stessi valori. Poi certo l’immigrazione è nella linea di programma dello stato e chi sceglie di fare l’Alyah crede nel progetto dello stato stesso e nella speranza che questo rappresenta, ma ci sono anche spinte negative dai paesi d’origine che sono sostanzialmente di due tipi: la crisi economica e l’antisemitismo. Quindi l’Alyiah è anche la risposta ad una crisi e i dati di immigrazione riflettono esattamente le specifiche situazioni economiche e politiche dei paesi d’origine in quel momento particolare”.

La componente ebraica, quel 79% che ci ha indicato, è a sua volta composita e molto variegata.
“Sì, è una componente non omogenea in cui il fattore della religiosità è decisivo per la demografia. Abbiamo parlato di una natalità media di tre figli, ma la crescita è molto più rapida tra i Haredim che mediamente hanno sette o più figli, vivono in situazioni economiche difficili per lo scarso coinvolgimento degli uomini nel lavoro e in quartieri specifici. I religiosi più moderni ne hanno circa quattro, fino ad arrivare al più laico degli israeliani, che vive nel quartiere più laico della laica Tel Aviv, che si assesta a quota due figli, una soglia decisamente diversa dall’Europa. La ragione va rintracciata sicuramente in uno stile di vita particolare, ma anche probabilmente in un maggior ottimismo nel futuro e soprattutto nell’attribuire molta importanza alla famiglia”.

Si possono identificare dal punto di vista demografico i gruppi che compongono Israele in base ai paesi di provenienza?
“Israele ha una popolazione di 9milioni e 300 mila abitanti, ma il 70% della popolazione attuale è nata in Israele (seconda e terza generazione). Sicuramente la provenienza caratterizza una certa prospettiva e cultura, ma i figli e ancora di più i figli dei figli, cresciuti in Israele, formati nelle scuole locali sono socializzati in una maniera decisamente diversa dai genitori o dai nonni. Il processo di assimilazione degli immigrati è in corso ed è il fenomeno dominante nella società. Tuttavia, è vero che anche qui c’è una etnicizzazione della politica che, a differenza di quanto accade in Italia per esempio con la Lega, non è un fenomeno regionale, ma anzi diffuso su tutto il territorio dello stato e basato sulle origini delle persone. I gruppi più importanti sono i russi, i marocchini e coloro che provengono da paesi islamici”.

Che influenza ha (o che rappresentanza) sulla Knesset questa etnicizzazione? Possiamo individuare tendenze di voto in base ai paesi di provenienza?
“Faccio un piccolo passo indietro per ricordare la storia del paese. Gli immigrati del nucleo iniziale dello stato provenivano in buona parte dal’Europa centrale e dell’Est e hanno portato un ethos socialdemocratico – laburista. L’immigrazione dai paesi islamici avvenuta per gran parte negli anni ’50 invece aveva una cultura più religiosa e nazionalista, infine quella dell’ex Unione Sovietica si è caratterizzata per lo più come un’emigrazione di reazione e rifiuto del regime comunista, dunque si assesta su posizioni nazionali. Con il passare del tempo però quello che conta è la realtà locale. La mobilità nello strato sociale determina l’orientamento politico delle persone. Attualmente votano il centro sinistra gli strati medo-alti della popolazione, mentre quelli più bassi la destra. Poi c’è l’enclave rigida composta da una parte dai partiti Haredim e dall’altra quello degli arabi il cui elettorato compie scarsi movimenti”.

Perché Israele oggi si trova in uno stallo politico, al punto da non riuscire a formare un governo?
“Alle ultime elezioni si è arrivati, ancora una volta allo stallo. Si potrebbe pensare che i partiti più religiosi, a causa di una più elevata natalità tra i suoi elettori, abbiano maggior successo. Ma i figli non necessariamente votano come i genitori e stiamo assistendo a uno spostamento di quei voti verso destra, dunque passando da un orientamento religioso a uno nazionale. A questo va aggiunto che la mobilità sociale verso una maggiore istruzione e un accrescimento del reddito spostano ulteriormente i voti verso il centro sinistra. Ora è cresciuto il centro, composto da un elettorato abbastanza laico, non di sinistra, non di destra, fatto dagli strati medi della società, sufficientemente istruiti e produttivi. E siamo al pareggio. Dal punto di vista politico c’è un problema e si chiama Netanyahu. Perché il paese è nettamente diviso in due: pro o contro di lui. Nessuna delle due parti ha però la maggioranza necessaria”.

Chi ha il ruolo di ago della bilancia?

“Ci sono due partiti che determineranno la possibilità di fare un governo e attendiamo di vedere come si schiereranno. Netanyahu con i voti del suo partito sommati a quelli a quelli di un partito del nazionalismo che si definisce sionismo religioso e quelli dei partiti Haredim raggiunge 52 seggi, ma per governare ne occorrono 61. Quelli mancanti potrebbero arrivare dal partito della destra semireligiosa di Naftali Bennett, che dispone di sette seggi. A cui potrebbero aggiungersi, e questo è un fatto assolutamente inedito, quelli di una parte dell’elettorato islamico, che a sua volta si è scisso, rispetto alla precedente composizione politica, in due tronconi. Quello che potrebbe essere disponibile ad allearsi con Netanyahu è il partito islamico fondamentalista, quello che a Gaza si chiama Hamas, che dispone di quattro seggi. Certo, immaginare che proprio quel partito si allei con Netanyahu è piuttosto forte. Naturalmente la parte di Sionismo religioso, si oppone radicalmente a questa possibilità, dicendo no a un governo sostenuto dagli arabi. Un governo alternativo sarebbe possibile con l’unione degli altri partiti che però sono estremamente frammentari e potrebbero proporre una coalizione molto eterogenea sulla cui stabilità è difficile scommettere. Il rischio di una quinta tornata elettorale è possibile. E ancora una volta, il fattore determinante è Netanyahu perché il discorso politico è polarizzato sull’idea che solo lui possa fare un governo o, al contrario, che il paese non debba mai più avere lui al governo. Si cerca l’uomo, prima di tutto, e questa è una carenza di tipo totalitario. Ma il suo partito segue il suo leader, senza pensare a una figura alternativa a Netanyahu che invece potrebbe proseguire l’ormai lunga storia del Likud quale partito di maggioranza”.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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