Cultura Musica
It Sounds Jewish #4

Adon ‘Olam, declinazioni musicali di una preghiera

Scusatemi, ma questa volta vado un po’ sul personale. E divago. Poi criticatemi quanto vi pare. La sera di Shabbath, quando si arriva al termine di ‘Arvit, la tentazione mia è di scappare. Adon ‘Olam è uno dei piyyutim più belli mai scritti: le melodie per cantarlo sono melense o insulse o entrambe le cose. Gusto personale, per carità. Poi un bel giorno, anzi, un bello Shabbath di molti anni fa entro nel Bet HaKnesseth Istanbuli di Gerusalemme… Il nusach è quello sefardita occidentale di Londra, Bordeaux, Gibilterra, Amsterdam, New York. La melodia qui cantata con un accompagnamento che io trovo esteticamente (non musicalmente) incongruo dal leggendario Rav Abraham Lopez Cardoso, è straordinariamente potente quando affidata ad un coro omofonico

Pensavo fosse finita lì. Ho trovato il mio Adon ‘Olam. Poi, dopo vari anni ancora, a New York mi imbatto in qualcosa del genere….

La reazione? Woww!! Wowww!!! E basta…
Era un concerto, non una preghiera comunitaria. Ma improvvisamente mi sono reso conto di tutto quello che in tanti anni di frequentazione di non so più quanti Tempi di vari riti, tradizioni e provenienze non mi aveva mai convinto: la musica, sì, la musica. Ma perché non mi ha mai convinto?

Potrei dire, perché non ha affatto la dignità, la sapienza, la piacevolezza, la capacità di arrivare al sublime della musica d’arte cristiana applicata alle funzioni religiose. Sotto questo profilo, aveva ragione il gentiluomo inglese Thomas Coryat quando in visita a Venezia nei primi anni del Seicento, si reca nelle varie Scole e vi trova “un indecente ruggire di bestie feroci sgraziate”. Certo, gli ideali estetico ed esperienziale, la valenza religiosa della musica liturgica cristiana non hanno nulla a che vedere con le ragioni profonde e il vissuto concreto della nostra tefillà. Tuttavia, le nostre musiche, quelle da me praticate, mancano anche al tempo stesso della capacità di trascinare, di andare oltre, di esprimersi su un piano personale e collettivo in modo pieno e trascendente. Certo, ho frequentato solo di sfuggita e raramente certi Btei Knesset chassidici dove l’ingresso nella sfera estatica attraverso la musica è sempre in agguato…

Poi appunto entri in un teatro di Broadway e ti trovi in una specie di funzione della Abyssinian Baptist Church di Harlem: ma i testi sono in ebraico, e sono quelli delle nostre tefilloth. Cosa è successo?

È una storia che parte da lontano. Dal gospel, dall’idea di cantare parafrasi della Bibbia e sermoni su un ritmo trascinante, dove ciascuno potesse esprimersi anche con i movimenti del corpo (una cosa molto ben intuita pure dal movimento chassidico). Dall’idea di fare del sermone un’esecuzione parzialmente estemporanea, ritmata e cantata, commentata da cori spontanei. Dalla pratica di introdurre il blues, con le sue scale particolari, maggiori e minori al tempo stesso, nelle espressioni di devozione. Dall’idea di fare di ogni preghiera comunitaria un’esperienza collettiva ed individuale, un percorso di espressione e cambiamento. Dal costante, continuo riferimento all’Uscita dall’Egitto come momento paradigmatico: la liberazione dalla schiavitù, la riconquista di una dignità personale e collettiva. Al punto che molti riadattamenti commerciali di momenti liturgici delle chiese afroamericane entrano nel repertorio dei canti del Seder di Pesach in non poche case ebraiche americane…

Il Golden Gate Quartet, gruppo vocale afroamericano famosissimo negli anni 40 e 50, presente anche in non poche produzioni hollywoodiane.

E poi i costanti riferimenti a Gerusalemme nei gospel di Mahalia Jackson, una delle voci più importanti del 900 e non solo negli USA.

E infine lui, Joshua Nelson. Voce formidabile e poderosa, senso del ritmo senza pari, virtuosismo percussivo alla tastiera, studio rigoroso del gospel, devozione assoluta per Mahalia Jackson, un’ottima educazione ebraica conseguita nel New Jersey e in Israele. Anni di attività come insegnante di ebraico in una congregazione riformata del Garden State. Una breve apparizione su scene alternative, e poi nulla per anni. Si prende cura molto amorevolmente dei nonni. E poi, il come back. Con i Klezmatics. Alcune tradizioni yiddish si sposano molto bene con questa idea di musica sentita, appassionata, trascinante, coinvolgente. E così, sulla scena, assieme alla rivisitazione molto libera e colta di tanti classici di una cultura, quella yiddish, che non è assolutamente solo liturgia, compare il gospel. Quello nuovo creato da Nelson, come nell’Adon ‘Olam di prima. E quello di Mahalia Jackson, certo, ma rivisitato con una forza ed un’energia incredibili, crossato con trombe e clarinetti molto klezmer ma anche molto jazz. Insomma, siamo nel pieno di quello che molti cittadini degli USA chiamano The American Experiment.


1 Commento:

  1. Massimi Acanfora Torrefranca: è stato un regalo di fb inaspettato e come musicologo e come giornalista e come saggista. Si comprende subito dall’attacco dei suoi interventi che non concede molto alla insipienza loquace; in questo mette anche soggezione, non perchè impone il suo di pensiero ma perchè non regge la stupidità facilona e l’inconcludenza. Confesso di avere esitato prima di firmare una mia pur breve opinione a compendio dei suoi non frequenti post. Non ho perso occasione di stare dal lato di dove si esprime la musica: ho fatto pianoiforte, ho più libri di musica che di altro Eppure ho raccolto ogni sua offerta come chi si sorprende a gustare sapori esclusivi che non si aspettano proprio perchè fuori dall’ordinario.Lo Ringrazio.


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