Hebraica Nizozot/Scintille
Jan Assmann e la “memoria culturale” di Mosè nostro maestro

L’egittologo tedesco nel 1997 ha pubblicato il volume “Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria” (tr. Adelphi 2000) in cui era chiaro l’intento di rivalutare l’influsso di quella cultura sul nascente monoteismo ebraico

Un mese fa (il 19 febbraio) è mancato a 85 anni il professor Jan Assmann (1938-2024), egittologo tedesco e storico delle idee di fama internazionale, autore di tre volumi che hanno agitato non poco le tranquille acque accademiche in materia di studi biblici, in senso stretto, ma anche ebraici, in senso lato. Dopo aver molto scritto negli anni Settanta e Ottanta sulla religione dell’antico Egitto, nel 1997 diede alle stampe il volume Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria (tr. Adelphi 2000) nel quale era chiaro l’intento di rivalutare l’influsso di quella cultura sul nascente monoteismo ebraico, riprendendo e rielaborando l’intuizione di Sigmund Freud per la quale Mosè fu il vero continuatore della rivoluzione religiosa del faraone eretico, in quanto “monoteista” o “enoteista”, Akhenaton noto anche come Amenofi IV della XVIII dinastia. Al rigore del monoteismo mosaico Assmann faceva risalire la radice dell’intolleranza o meglio della violenza religiosa passata poi nel cristianesimo e nell’islàm. Ne venne un fiume di polemiche da parte dei biblisti (soprattutto protestanti), che portò Assmann a riformulare il suo pensiero nel volume La distinzione mosaica ovvero il prezzo del monotreismo (2003; tr. Adelphi 2011). Forse Mosè non ha inventato la contrapposizione tra vero Dio e falsi dèi, tuttavia il paradigma esclusivo della sua teologia, o meglio della sua teo-politica, costituisce quel “prezzo del monoteismo” che ha reso la storia dell’Occidente così sanguinosa e sanguinaria. Altra ondata di polemiche, di severe obiezioni e di critiche accademiche, ora da parte anche di cattolici ed ebrei.

Più di un decennio dopo, il famoso egittologo elaborò e pubblicò una nuova ricerca dedicata all’intero libro biblico, Esodo. La rivoluzione del mondo antico (2015; tr. Adelphi 2023) in cui, pur non rinnegando i capisaldi della sua metodologia imperniata sulla mnemostoria, aggirava la questione un po’ anacronistica del “vero versus falso”, certamente più filosofica che biblica, e si concentrava sulla complessità del mito dell’esodo ovvero sulla natura di un racconto più grande dello stesso libro biblico. Ne concluse così che motore autentico di questo racconto è il duplice ricordo che sta alla base delle religioni monoteiste: l’idea di una liberazione finalizzata a una rivelazione divina ossia un progetto teo-politico incentrato sul legame di fedeltà – chiamato brith, alleanza – tra un popolo e il suo Dio, avvinti al punto da fare a meno anche di mediatori, quei re e quelle regine che proprio in Egitto incarnavano, o meglio mediavano, la forza e l’autorità del divino. In altre parole, le storie dell’Esodo segnerebbero uno straordinario cambio di passo nel mondo antico, una svolta radicale, indipendente da una supposta ed esagerata “età assiale” (divulgata da Karl Jaspers) e che molto deve, piuttosto, alle tragiche vicissitudini dei piccoli regni di Israele e di Giuda, al nord e al sud della terra di Canaan, e delle loro elìte profetiche, sacerdotali e scribali, a cui si devono le diverse redazioni dei miti fondatori che troviamo nella Bibbia. Insomma, Assmann è andato al di là di Assmann, ha fatto una specie di teshuvà, di svolta, e con il medesimo metodo ha ricavato tesi diverse da quelle sostenute in precedenza per decenni.

Se questi sono i temi stimolati da Assmann, in quella che ritengo la discussione più feconda sugli studi biblici (cristiani ed ebraici) della seconda metà del XX secolo ad oggi, credo altresì che il suo contributo maggiore resti la definizione epistemologica ed ermeneutica del concetto di “mnemostoria” a partire dal volume Memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche (1992; tr. Einaudi 1997). Tale concetto, applicato al caso di Mosè e dell’Esodo, è stato da lui stesso esplicitato nel libro autobiografico Il disagio dei monoteismi(Morcelliana 2016):

«Non mi chiedo come qualcosa sia stato nella realtà, bensì come viene ricordato e come viene assimilato nell’immagine storica di sé, ovvero nella semantica storica di una società… [Prendendo ad esempio il racconto biblico dell’uscita dall’Egitto] la ricerca fino ad ora si è affaticata sulla domanda su cosa sia potuto essere accaduto veramente tra il XIV e il XIII secolo a.C.; quali catastrofi naturali si nascondessero dietro le ‘piaghe d’Egitto’; quale percorso potessero aver seguito gli Israeliti attraverso il Sinai; quali città avessero conquistato e distrutto a Canaan… senza che da queste domande emergesse qualcosa di concreto, perché fuori dalla Bibbia non esistono tracce di questi accadimenti. Molto più feconda è invece la domanda su quando e dove avvenne questo ricordo, su quando, dove, da chi e per chi, fu raccolto e strutturato, su quali sono i contesti storici, sociali e politici dei rispettivi ricorsi a questo tema, ecc. In breve: la domanda circa il significato del racconto dell’esodo dall’Egitto nella memoria culturale dell’ebraismo e del cristianesimo e nella loro storia spirituale».

Ecco come Assmann spiega questa specifica memoria biblica, così centrale nella storia (non solo religiosa) del mondo occidentale. Si tratta di un concetto non statico ma dinamico, il quale presuppone che storico non sia l’oggetto della memoria ma il processo stesso del memorizzare, mentre i contenuti di quella memoria, consegnati nelle forme simboliche che la cultura trasmette, sfuggano per lo più alla verificabilità scientifica (retaggio dell’approccio positivista) ma siano costituiti dalla fruibilità di senso, ieri come oggi, di cui tanto gli individui quanto le comunità – e a volte le stesse istituzioni politiche – hanno bisogno per vivere e sopravvivere. Nel volume La memoria culturale lo studioso tedesco ha ampiamente descritto i nessi problematici tra memoria e identità, tra storia e tradizione, tra mito e rito, tra ethos narrativo (aggadà) ed ethos normativo (halakhà), tra canone e classicità. Scrive ancora: «Per la memoria culturale è valida non la storia de facto ma solo quella ricordata; si potrebbe dire che nella storia culturale la storia de facto viene trasformata in storia ricordata e dunque in mito. Il mito è una storia fondante, una storia che viene raccontata per chiarire il presente alla luce delle origini, del tutto a prescindere dal problema della storicità».

È dunque del presente che parliamo, anche quando esploriamo la storia del mondo antico, poiché quel che resta in essa è ciò che venne trasformato in mito, in saghe e leggende e narrazioni in virtù delle quali riceviamo e costruiamo e difendiamo la nostra identità come gruppo o società e/o nazione e, dentro tale mnemostoria, la nostra identità come individui e persone. «Il passato non nasce spontaneamente – ripete Jan Assmann – ma è il risultato di una costruzione e rappresentazione culturale, e viene sempre guidato da motivi e attese, da speranze e obiettivi specifici, ed è plasmato dal quadro di riferimento del presente». C’è molto da riflettere su ciò, perché è una lezione interculturale che riguarda ebrei e non ebrei alla pari. E poiché, anche grazie alle tecnologie comunicative, viviamo in un acritico appiattimento sul presente che riduce la memoria a mera emotività, questa lezione è ancora più importante.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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