Due volumi di inediti raccontano il medico ed educatore polacco. E il suo sogno di una società giusta, libera e responsabile
Quando si parla di Janusz Korczak (Varsavia 1878-Treblinka 1942) – medico ed educatore assassinato in un campo di sterminio nazista insieme a 203 giovanissini ebrei della Casa degli orfani, che non volle abbandonare pur avendo la possibilità di non salire sul quel treno – ci sono due rischi o meglio due approcci sbagliati, da evitare: il primo è quello di farne un santino, un eroe buono per tutte le stagioni, e narrarlo con toni agiografici, leggendo la sua intera esistenza alla luce dell’estremo sacrificio di sé allorché decise di accompagnare i ‘suoi ragazzi’ a Treblinka e riassorbendo il suo vasto contributo culturale nel tragico destino voluto dalle politiche antisemite dei nazisti; il secondo rischio, o approccio problematico, è quello di contenderlo, per così dire, in una ‘guerra delle memorie’: da una parte la memoria polacca, che lo ritrae come un patriota che difese la Polonia nella guerra russo-giapponese e che indossò quell’uniforme anche contro i tedesci invasori della sua patria (si pensi al film di Andrzej Wajda), morto da martire polacco; e dall’altra la memoria ebraica, essendo Korzczak solo lo pseudonimo di Henyk Goldszmit, figlio di una famiglia di ebrei assimilati, lontano sì da ogni pratica religiosa ma sin da giovane immerso in alcune associazioni e istituzioni del variegatissimo ebraismo di Varsavia, in particolare l’orfanotrofio ebraico cittadino, e ucciso a Treblinka in quanto ebreo. A lungo Polonia e Israele lo hanno ‘reclamato’ come esponente del proprio mondo, come fiore all’occhiello della propria storia nazionale. Ma quello di Goldszmit/Korczak è proprio un classico caso di identità complessa, tipica di molti ebrei europei occidentalizzati, dove è impossibile separare e tagliare di netto – con spada ideologica – la componente identitaria polacca da quella ebraica (a cui qui si aggiunge l’affiliazione massonica in chiave filantropica), e dove il gioco del ‘più polacco che ebreo’ oppure ‘più ebreo che polacco’ è a somma zero, anzi è improduttivo e finisce per sminuire la grandezza morale di quest’uomo che resta un’inscindibile simbiosi di cultura polacca e di valori ebraici, di rigore scientifico (in quanto medico e psicologo) e di afflato umanistico (in quanto letterato e poeta), di realismo nell’azione politica e di utopia nella visione sociale.
Spesso le biografie di Korczak sono sbilanciate, cedendo ora di qua ora da là a questa logica contenziosa, e non esplorano tutti i meandri di tale complessa simbiosi. Per tanto sono di grande aiuto, ai fini di una più profonda conoscenza della sua figura, Racconti e scritti educativi, i due volumi di ‘scritti inediti’ (in italiano) appena pubblicati dalle edizioni Studium di Roma, in un progetto guidato dal prof. Andrea Potestìo, tradotti dal polacco e annotati da Francesca Fratangelo. In quasi novecento pagine complessive vengono offerti nuovi materiali per ripensare il pionieristico contributo di Korczak nell’ambito della pedagogia, dei diritti dell’infanzia e della letteratura per ragazzi (nel primo volume) e per rivalutarne l’appartenenza al mondo ebraico, ossia quel lato della sua personalità a volte così difficile da esplorare (nel secondo volume). Da quest’ultimo tomo, che raccoglie 75 lettere, molti articoli e saggi brevi, vari documenti sulla Casa degli orfani nonché sugli ultimi mesi del ghetto di Varsavia, si possono scoprire aspetti della personalità di Korczak fino ad oggi rimasti semi-nascosti, in particolare la sua appassionata adesione al sionismo e a ciò che avveniva in quella che allora era chiamata ‘Palestina’, la Palestina mandataria affidata agli inglesi. Veniamo così a sapere che il ventenne Goldszmit partecipò nel 1898 al secondo congresso sionista di Basilea e poi ancora al XIV, nel 1925 a Vienna. Pur lontano da ogni ebraismo religioso, seguiva il dibattito sull’esperimento sionista e volle recarsi in loco di persona: fece due viaggi in Palestina, nel 1934 e poi nel 1936, stabilendosi ogni volta per alcune settimane nel kibbutz Ein Harod, nella bassa Galilea (un kibbutz fondato nel ’22 da ebrei russi, con cui poteva comunicare, non conoscendo l’ebraico). L’invasione tedesca della Polonia e lo scoppio della guerra congelarono il suo progetto di un terzo viaggio, ispirato dal sogno di trasferirvisi definitivamente (oggi diremmo ‘fare aliyà’). Quel progetto è tema ricorrente nell’antologia del suo epistolario ora tradotto in italiano.
Quello di Korczak non è un sionismo religiosamente motivato – come ho detto, ebbe una formazione sostanzialmente scientifico-positivista e quasi nessuna vera educazione religiosa ebraica – e nemmno può dirsi un sionismo culturale, alla Achad Ha’am o alla Martin Buber; fu un sionismo del cuore, con radici sia nell’esperienza della reale condizione diasporica in Polonia (dove gli ebrei erano una minoranza vivace ma povera e politicamente subalterna) sia nella nostalgia delle radici bibliche, una nostalgia intesa come “il futuro che reclama il proprio passato” ossia il sogno e la speranza – ha-tiqwà – di trovare nella terra dei propri padri e delle proprie madri il radicamento per i propri figli. Può sembrare strano: Korczak scelse in modo consapevole di non creare una sua propria famiglia e di dedicarsi diuturnamente ai ragazzi più svantaggiati della capitale polacca, gli orfani e gli abusati, ebrei e non ebrei (tra le due guerre il 35 per cento degli abitanti di Varsavia erano ebrei). Ovvio che scattasse in lui un senso di paternità diversa, e parimenti che il bisogno di immaginare un futuro per gli orfani ebrei contemplasse la possibilità di una loro immigrazione in Palestina o in America. Molte lettere di Korczak qui riportare sono con ex allievi approdati in entrambe le mete migratorie.
Un sionismo del cuore, ho detto, ma per nulla romantico; anzi, estremamente concreto e attento alle dinamiche economiche, socio-politiche e psicologiche attive nel laboratorio della ricostruzione sionista, che Korczak credeva essere un’occasione unica per realizzare, finalmente, una società più giusta, più libera, più egalitaria rispetto a quella in cui vivevano gli ebrei europei. Il suo sionismo, confessa, è “la profondità di duemila anni sulle spalle e un domani misterioso”; è la sfida di costruire con le proprie mani quel domani; è l’assumersi il rischio di imparare ex novo a coltivare i campi e pascolare le pecore (imparando dagli arabi, se necessario). L’obiettivo non poteva che essere una società nuova, basata sul riconoscimento dei diritti e dei doveri di ciascuno ossia sul senso di responsabilità, diritti e doveri il cui valore il medico-pedagogista aveva inscritto negli statuti della ‘repubblica dei ragazzi’ da lui propugnata e organizzata nei due orfanotrofi varsaviani, quello ebraico e quello cattolico, con l’aiuto di Maryna Rogowska-Falska e di Stefania Wilczynska.
Della nuova società, che poteva essere fondata in eretz Israel, il re-messia è il bambino, simbolo di un umanesimo attento ai bisogni dei più negletti e strutturato sul diritto di tutti e di ciascuno a essere se stesso. “L’ebraismo laico di Janusz Korczak – ho scritto nella postfazione a quel secondo volume – coincide sia con il suo sionismo realistico e nostalgico, sia, paradossalmente, con il suo messianismo pedagogico imperniato sulla cura dell’infanzia, sul bambino e sulla costruzione di luoghi per il riscatto e la rigenerazione dell’intera società”. Un’eredità vasta e complessa, quella di Korczak, forse non ancora del tutto compresa.
Complimenti per l’interessante articolo