Cultura
Keith Lowe: viaggio tra i monumenti dedicati all’ultimo conflitto mondiale

La recensione del libro “Prigionieri della storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della seconda guerra mondiale sulla memoria e su noi stessi”, edito da Utet

Chiunque intraprenda la lettura di questo libro, potrebbe essere incuriosito già dal titolo, Prigionieri della storia, per chiedersi fin dall’inizio che cosa significa esattamente essere prigionieri della storia? La risposta è da individuare in due differenti prospettive di lettura: trovandosi di fronte ad un’analisi critica sull’importanza dei monumenti nella storia dell’uomo, mentre si riflette sulla funzione liberatoria degli stessi dalla tirannia del passato, immediatamente si percepisce il contrario: proprio i monumenti potrebbero renderci prigionieri del nostro passato e quindi della storia.
A questa domanda e ad una serie di altri interrogativi l’autore cerca di rispondere proponendo innanzitutto un taglio ben preciso all’analisi che intraprende: tiene in considerazione i monumenti realizzati negli ultimi decenni, precisamente quelli che si riferiscono alla Seconda Guerra Mondiale, riflettendo su come è cambiato il loro ruolo, ed anche il loro aspetto, sia nella modalità del ricordo e sia nell’importanza politica e pubblica che gli viene data. Va da sé che insieme alle modalità di commemorazione, sono cambiati anche i valori che i monumenti e i memoriali rappresentano.

La storia dei monumenti tracciata da Lowe ci insegna che non sempre questi sono eretti per durare per sempre, ad esempio tanti sono quei casi in cui una tendenza iconoclasta tipica degli anni Sessanta e Settanta del Novecento ha distrutto o rimosso una quantità significativa di opere commemorative.
L’autore, per una maggiore facilità di lettura, propone una suddivisione del libro in cinque parti, che indicano cinque tematiche: eroi di guerra, martiri di guerra, principali carnefici del conflitto, monumenti sulle rovine provocate dalla guerra, monumenti dedicati alla rinascita. Essi possono appartenere a diverse tipologie espressive: sculture figurative e astratte, sacrari, tombe, rovine, murales, parchi e architetture a tema; ciò per ricordare che la guerra ha coinvolto tutti, ma viene commemorata in modo diverso nei vari Stati e anche le prospettive volte a dare un significato al ricordo sono discordanti su un’esperienza condivisa da tutti.
È chiaro che ogni società ha almeno una “memoria” di se stesse: significa non solo possedere una visione del proprio passato, ma anche darsi una spiegazione del presente; in altre parole significa comprendere fino in fondo perché una società o una cultura sono diventate quello che sono nel presente.
La memoria, quindi, viene ad essere anche un’espressione del pensiero sociale, in relazione alla quale si costituiscono le molteplici forme dell’identità collettiva, coincidendo in questo modo con la produzione di rappresentazioni delle identità. Essa è quindi sia una forma del ricordo, sia una forma di costruzione dell’identità collettiva, e soprattutto è una componente di qualsiasi processo culturale: tutti i fenomeni ad essa legati sono frutto di un’attività che consiste nella scelta e nell’assunzione di determinati elementi caricandoli di un preciso significato simbolico.

«Un eroe è come un arcobaleno: lo si apprezza meglio da una certa distanza. Se ci si avvicina troppo, ciò che lo faceva brillare tende a scomparire» (Lowe, p.83), scrive Keith Lowe nell’epilogo della prima parte del suo libro intitolata Eroi.
Dalla “madre patria” Russia, alla Statua della pace di Seul, passando per la tomba di Mussolini e il bunker di Hitler, fino ad arrivare alla terrazza dello Yad Vashem di Gerusalemme, l’analisi dei monumenti eretti durante il corso della storia contemporanea, continua a far interrogare il lettore su quali sono i valori che la società considera degni di essere ricordati, e intorno a quali eventi si crea il senso dell’identità collettiva.
Le carte geografiche inserite nelle prime pagine del volume lasciano immediatamente capire che si tratterà di un viaggio intorno al mondo, così come l’icona del monumento lascia intendere che ci affacciamo alla storia del dopoguerra, alla narrazione che della guerra si è fatta dopo la fine della stessa, e alla volontà più che mai visibile di erigere monumenti che resistano al tempo e che del proprio tempo siano testimoni immortali.
Seguendo il ragionamento di Lowe i monumenti riflettono i valori che ogni società considera eterni, ma «mentre il mondo è in continua evoluzione, i monumenti – e i valori che rappresentano – restano fermi nel tempo» (Lowe, p.15).

Punto di forza dell’intera trattazione dell’autore è un linguaggio diretto e coinvolgente, che permette ad ogni lettore di entrare nel vivo della narrazione, di comprendere gli aspetti controversi di ogni singolo caso, e gli approcci delle popolazioni per cui i monumenti sono stati costruiti.
Ed ecco dispiegarsi di fronte a noi una significativa quantità di monumenti, legati ai macro-temi già indicati: il primo di questi è la statua che troneggia sulla cima del Mamaev Kurgan, nella città di Volgograd, in Russia, capace di parlare al visitatore non solo sulla Seconda Guerra Mondiale, ma anche della psicologia del popolo russo. Quando è stata inaugurata, nel 1967, riferisce l’autore, era la statua più grande del mondo, oggi quel complesso monumentale – che rappresenta la Madre Patria – sovrastato da un’unica statua di 2500 tonnellate di metallo e 5500 tonnellate di calcestruzzo rappresenta un paradosso, è una commemorazione anacronistica della guerra e quindi della morte.
Diversa prospettiva è quella con cui l’autore presenta i monumenti americani, solitamente dedicati all’eroismo più che alle vittime, sottolineando la differente indole commemorativa che contraddistingue il popolo americano rispetto a quella europea.
Come esempio l’autore dedica una lunga analisi al Marine Corps Memorial di Arligton, in Virginia. «Si tratta innegabilmente di uno dei memoriali più importanti del paese. A essere precisi, non si tratta di un monumento ai soldati della seconda guerra mondiale: il memoriale è dedicato a tutti i marines caduti dal 1775, anno di fondazione del corpo. Ma fu costruito all’indomani della seconda guerra mondiale, con le donazioni dei marines che avevano prestato servizio durante il conflitto» (Lowe, p.45).

La controversa statua della pace che si trova a Seul dimostra che le opere commemorative non sempre si offrono ad una lettura immediata: la scultura di bronzo che ritrae una giovane donna in abito tradizionale coreano, apparentemente trasmette un messaggio positivo, ma in realtà ricorda una vicenda molto dolorosa. Si tratta di un riferimento, non chiaramente esplicito, a quelle che furono definite “donne di conforto”: decine di migliaia di donne che tra il 1937 e il 1945 furono adescate con l’inganno, per poi essere sequestrate e imprigionate nei bordelli come schiave sessuali, mentre le autorità giapponesi non solo facevano finta di niente, ma addirittura sembravano favorire questo sistema di schiavismo sessuale. Come scrive l’autore: «Ciò che rende la statua così controversa è che si trova proprio di fronte all’ambasciata giapponese a Seul. E anche se il viso della ragazza non mostra segni di rabbia o sofferenza, i suoi occhi sono fissi sulla sede diplomatica dall’altro lato della strada, e le mani contratte sono una chiara dimostrazione del suo stato d’animo» (Lowe, p.112).

Di tutte le categorie di monumento presentate da Lowe, quella appartenente alla sfera dei Mostri è la più problematica: dilemmi morali, monumenti per sbaglio, siamo di fronte all’assurdo, al paradosso della commemorazione, tanto che l’autore scrive:

Negli anni trenta e quaranta del Novecento, i fanatici salirono al potere e perseguirono i propri obiettivi calpestando i diritti, la dignità e la vita di milioni di persone. Uccisero senza ragione e senza coscienza. Considerarono gli esseri umani alla stregua di oggetti da usare e poi buttare via; o meglio, negarono la loro stessa umanità trattandoli come parassiti da sterminare. In persone simili l’ossessiva dedizione alla causa non è una qualità da ammirare. Diventa anzi una malattia che avvolge ogni azione in una coltre oscura, la stessa che si può percepire in modo così tangibile camminando nel campo di Auschwitz-Birkenau.

Tra questi va menzionato il luogo verso cui si dirige ogni anno un vero e proprio corteo funebre: la cripta dove si trova il corpo di Mussolini, a Predappio, che nel tempo è diventata una sorta di luogo di pellegrinaggio per i neofascisti di tutto il mondo. La presenza dei “pellegrini” e del luogo fisico in cui Mussolini è stato sepolto fa ben riflettere sull’incapacità italiana di fare i conti con la propria storia, tanto che, come spiega Lowe, il comune di Predappio ha pensato di riempire il vuoto nella cripta costruendo un vero museo al centro della città, per “strappare” il paese dalle mani di chi ne stava facendo un uso improprio. In questo modo si sarebbe tentato di spiegare qualcosa di più di quello che è davvero accaduto in Italia, e la tomba di Mussolini avrebbe forse smesso di accogliere esclusivamente i suoi seguaci.
L’Apocalisse, così come la chiama Keith Lowe, che ha investito alcuni luoghi durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, viene presentata nel quarto capitolo del libro. I casi disseminati nel mondo purtroppo non sono pochi: località come Oradour-sur-Glane, Hiroshima o Nagasaki, ci ricordano di quella devastazione causata dai mostri quanto dagli eroi. In Europa parte di questa distruzione apocalittica è mirabilmente espressa nel Memoriale per gli ebrei assassinati di Peter Eisenmann, a Berlino, a pochi passi dalla porta di Branderburgo. Inaugurato nel 2005, consiste in 2711 blocchi rettangolari di cemento disposti a griglia in un sito di 19.000 mq. Il memoriale dimostra quanto la Germania sia decisa ad espiare le sue colpe, ma ancora una volta Lowe fa notare come non sia immediatamente leggibile il suo significato. Dall’esterno ricorda quasi a tutti i visitatori un grande cimitero, ma una volta al suo interno, il terreno di diversi livelli, porta il visitatore a sentirsi intrappolato in un labirinto da cui è difficile uscire. Probabilmente Eisenmann ha voluto evocare in questo modo il senso di spaesamento provato da ogni singolo ebreo estrapolato dalla propria vita e condotto quasi sempre alla morte ingiustificata per mano nazista e fascista.

La fine della Seconda Guerra Mondiale viene presentata nell’ultimo capitolo del libro, intitolato Rinascita. L’autore pone l’accento anche su quei luoghi geograficamente lontani dai luoghi degli accadimenti, esplorando alcuni degli spazi commemorativi meno tradizionali. Tra questi ci sono un affresco, una terrazza, una chiesa e un sentiero escursionistico, facendo notare che «a volte quando ci si presentano in forme inaspettate i monumenti possono essere ancora più potenti» (Lowe, p.264). L’Affresco della sala del Consiglio di sicurezza dell’ONU a New York, la Terrazza dello Yad Vashem a Gerusalemme, la cattedrale di Coventry e la Croce di chiodi in Gran Bretagna e la Liberation Route Europe chiudono l’analisi dei memoriali e il lungo percorso tracciato dall’autore.
La Liberation Route Europe, che chiude ufficialmente il volume, riassume simbolicamente il percorso che si snoda pagina dopo pagina, in tutta Europa. Questa si autodefinisce “percorso escursionistico”, ma in realtà è un percorso della memoria che collega le tappe salienti della liberazione dell’Europa occidentale. Come per tutti i monumenti presentati in questo libro, con la Liberation Route Europe, Keith Lowe intende parlare oltre che della nostra storia, anche del modo in cui la commemoriamo e la fissiamo nella memoria collettiva.
L’autore di quest’opera riesce nell’intento di trasmettere le tante informazioni contenute nel libro, attraverso l’efficace lente d’ingrandimento della ricerca sul campo. Egli stesso dichiara alla fine del libro che questo è frutto delle visite ai monumenti trattati e ai musei e centri informazioni a essi associati.

Keith Lowe, Prigionieri della storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della seconda guerra mondiale sulla memoria e su noi stessi”, pp. 336, 24 euro, Utet

Eirene Campagna
collaboratrice

Classe 1991, è PhD Candidate dello IULM di Milano in Visual and Media Studies, cultrice della materia in Sistema e Cultura dei Musei. Studiosa della Shoah e delle sue forme di rappresentazione, in particolare legate alla museologia, è socia dell’Associazione Italiana Studi Giudaici.


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