Cultura
La destra, la sinistra e gli ebrei in età contemporanea (terza e ultima parte)

Un’approfondita analisi dei cambiamenti nel rapporto tra le destre (illiberali e liberali) e la società ebraica

Se la sinistra negli anni Ottanta avviò un lungo percorso di modificazione dei rapporti non tanto verso la minoranza ebraica (basti ricordare l’Intesa sottoscritta dall’allora presidente del Consiglio dei ministri Bettino Craxi con l’Unione delle comunità israelitiche italiane, poi trasformatasi in Unione delle comunità ebraiche) quanto nei confronti d’Israele, laddove il declinante Partito comunista italiano, poi Partito democratico della Sinistra, già con Achille Occhetto (ed il concorso attivo di Piero Fassino e Janiki Cingoli) iniziava una revisione globale della vecchia dottrina verso lo Stato ebraico, vecchi e nuovi fermenti si rivelavano invece nel campo opposto, ovvero quello della destra.

Per capirci da subito: nelle righe a venire non si rimanda alla destra liberale (peraltro storicamente assestata, in un primo tempo, sulla posizione assimilazionista e poi, dopo le guerre mondiali, verso il pluralismo democratico nel gioco tra maggioranza e minoranze) bensì a quell’area sospesa tra irrisolta accettazione della Costituzione, sia pure per vincolo d’interesse e non per intima convinzione, e il radicalismo estremo dei gruppi che, in Italia così come in Europea, agitavano – e a tutt’oggi animano – un coacervo dai tratti eversivi. Tale poiché integralmente  avverso agli assetti istituzionali e agli equilibri politici derivati dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi.

Il punto di sintesi, da cui partire, rimane la presenza, e poi l’eredità, del Movimento sociale italiano, prima come forza di opposizione (non solo politica) alla Repubblica nata nel 1946 e poi come fucina di quadri della politica nel presente. Sarebbe non solo cieco ma fuorviante volere ricondurre al Msi di Giorgio Almirante, Pino Romualdi, Augusto De Marsanich, Arturo Michelini e poi, in tempi a noi più prossimi, di Pino Rauti e infine Gianfranco Fini, spinte che in realtà provenivano da una galassia ben più ampia e composita. Tuttavia, ed è questo il vero elemento di differenza, rispetto ad una sinistra non solo variegata ma in sé tanto conflittuale da non riuscire mai a costituire, dal 1945 in poi, un blocco di forze capace di imporsi, la destra extra e post-costituzionale ha sempre coltivato la sua natura di arcipelago unitario, ancorché spesso sospeso tra legalità (lo stesso Msi) e illegalità (di realtà come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale).

Si parla in questo caso – pertanto – di organizzazioni, formazioni, gruppi e cenacoli che condividono comunque l’avversione verso la «democrazia», poiché da essi intesa come una degenerazione degli ordinamenti umani, ossia della “naturale” disposizione gerarchica tra individui di qualità superiore rispetto e soggetti appartenenti a gruppi che sarebbero componenti di «razze» inferiori. La destra è radicale quando professa, in ogni dove e comunque, la necessità di evitare l’«imbastardimento», ossia la commistione, tra i gruppi sociali sovra-ordinati (coloro che hanno il dovere di dominare) e quelli inferiori (quanti, invece, debbono accettare una condizione subalterna). La contaminazione etnobiologica tra gli uni e gli altri costituirebbe un’infrazione della «natura» in quanto tale. Qualcosa che, per il solo fatto di verificarsi, metterebbe a rischio l’esistenza stessa dell’umanità. Quest’ultima, lo si sarà capito, non è intesa come un’entità di omogenei, tale poiché costituita da persone diverse ma con i medesimi diritti, bensì in quanto organizzazione verticistica, definita come “darwiniana”, poiché nella selezione naturale solo il chi presenta le migliori qualità avrebbe diritto di sopravvivere all’ecatombe di coloro che, invece, sono il prodotto di una sorta di meticciato universale. Tra di essi, per capirci, gli ebrei, agenti patogeni della commistione tra individui, società e civiltà che debbono invece rimanere separati.

Una tale specificazione di merito ha la sua ragione d’essere poiché l’intero tessuto del discorso radicale, a destra, si fonda su una lettura rigorosamente razzista della storia dell’umanità. Come tale, basata sul diritto assoluto – di chi sarebbe superiore – a dominare su quanti, i più, costituirebbero invece una massa di sottoposti. Questi ultimi si collocano ai limiti del subumano, tali poiché inaccettabili nella loro turpitudine, laidezza, promiscuità, imbastardimento. La commistione tra moralismo (“vi odiamo non solo perché diversi da noi ma anche, e soprattutto, poiché a noi avversi, tali per assenza di una qualche vostra qualità etica”) e falso naturalismo (“siete così da sempre, nella vostra biologia e nulla vi potrà mai cambiare”), è alla radici di qualsiasi razzismo. A partire dal medesimo antisemitismo.

Non sono tuttavia queste le righe nelle quali soffermarsi analiticamente rispetto a un tale ordine di considerazioni. Basti quindi un solo richiamo, per capire di chi e cosa stiamo effettivamente parlando. Ovvero, non di una generica «destra» conservatrice e di stampo liberale, peraltro in sé benevolmente estranea, almeno fino agli anni più recenti, alla specificità ebraica (avendola in parte assorbita nei suoi stessi quadri politici e istituzionali, con la sostanziale indifferenza che si nutre quando non ci si pone problemi di “diversità”), bensì di quella peculiare destra, un tempo minoritaria e oggi, forse, non più tale, in Europa come in Italia, di matrice post-costituzionale. Tale poiché da sempre estranea all’impianto culturale della nostra Costituzione che, come tale, definisce una volta per sempre – invece – i valori fondamentali, i capisaldi ai quali riferirsi nello stesso ragionamento di principio. Sancendo l’inaccettabilità di principio di qualsiasi interpretazione razzista degli individui, dei gruppi sociali e delle relazioni interpersonali.

Da questa cornice di massima derivano allora diverse considerazioni. Il primo punto da cui partire, se si parla di culture politiche, è che il fascismo storico, quello che si sviluppò tra le due guerre, in quanto timbro ideologico dal quale tutto il resto conseguì, era intrinsecamente razzista. Nei termini che si dicevano nelle righe precedenti. Da ciò derivarono infatti le leggi del 1938, che non possono essere lette come un “errore” del regime mussoliniano bensì come di una sua ovvia evoluzione, tanto più che già dal 1935 aveva rescisso i legami con l’Inghilterra per avvicinarsi alla Germania, in qualche modo assunta a una sorta di parametro sulla base del quale misurare la propria credibilità in divenire. Una tale eredità, dal 1945 in poi, si dovette non a caso confrontare con il radicale mutamento dello scenario mondiale, subito in ragione della clamorosa sconfitta, ed estinzione, dei regimi fascisti. Da qui, pertanto, bisogna partire.

Nel caso italiano ci troviamo dinanzi a tre variabili fondamentali: la minorità, fino al 1994, della destra antisistemica, costituita dal Movimento sociale italiano e quindi dall’arcipelago di sigle, soggetti e protagonisti che – dal dopoguerra in poi – si manifestarono intorno ad esso, con vocazioni più o meno eversive rispetto all’ordinamento democratico e repubblicano; del pari, ed è il secondo elemento da prendere in considerazione, la traiettoria seguita da quest’ambito, nel suo insieme, non solo come arcipelago politico bensì come contesto sociale, civile e sub-culturale, nel corso del tempo, con alcune significative differenziazioni: mentre una parte di esso ha rielaborato, in termini non tanto antirazzisti bensì differenzialisti («ognuno a casa sua», nel rispetto delle differenze nazionali), il tema del pluralismo, altri – invece – sono semmai completamente assisi sullo scranno del rigetto di ogni «differenza». Se la cosiddetta destra di governo, in sé post-costituzionale si riconosce nella prima accezione, quella eversiva – invece – continua a coltivare la matrice razzista e, con essa, antisemita.

Rimane una terza variabile, quella per cui le «destre plurali» (così a suo tempo si è espresso con efficacia il giornalista e studioso Guido Caldiron), tali poiché tante tra di loro ma accomunate da una matrice antiliberale, anti o post-costituzionale, diffidenti e quindi avverse alla democrazia rappresentativa (alla quale preferiscono il richiamo populista), si sentono comunque tutte parte di una medesima famiglia, di un’unica cultura politica. La quale trova nell’eredità fascista, sia pure fortemente traslata e poi rielaborata nel corso del tempo, il vero punto di partenza, il loro più autentico nocciolo identitario. Ed il fascismo, come il neofascismo, dalla Repubblica sociale in poi, mantenne sempre il suo spiccato connotato razzista, che stava alle sue stesse radici. Sia pure in forme e modalità di espressioni che mutarono con il trascorrere del tempo.

Così Giorgio Almirante, nel 1938: «il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l’Italia abbia mai tentato. Chi teme ancor oggi che si tratti di un’imitazione straniera non si accorge di ragionare per assurdo: perché è veramente assurdo sospettare che il movimento inteso a dare agli italiani una coscienza di razza (…) possa servire ad un asservimento ad una potenza straniera». Per poi ribadire nel 1942: «il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore. Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue».

A dare seguito, ancor più che credito, a queste parole ci sarebbe quindi da convenire sul fatto che i rapporti tra l’ebraismo e le destre plurali, anche quelle post-costituzionali, sia viziato da una insostenibilità di fondo, da un filtro ostile e perdurante. Quello, per l’appunto, di un razzismo tanto viscerale quanto identitario.  Poiché carsico, presente nell’impronta più profonda della storia di una comunità politica. Nei fatti, tuttavia, le cose non sono così semplici. Poiché se la radice familiare non si è per nulla esaurita, se il passato non è per nulla cancellato, è non meno vero che dal 1945 in poi il mondo che ne è derivato ha visto mutare di non poco atteggiamenti e condotte, sia sul piano politico che culturale.

Sul piano storico, peraltro, la considerazione del rapporto tra destra non liberale ed ebrei non può non partire proprio dalla frattura che si determinò con l’asse che va dalle leggi razziale del 1938 (precedute della normativa coloniale prodotta a partire dalla metà degli anni Trenta) alla fine della Seconda guerra mondiale. Il legame tra destra storica e liberale con la «questione ebraica», infatti, rimane sospeso e poi risolto nella dialettica tra assimilazionismo, confessionalismo e pluralismo. Per la destra radicale, invece, il trauma delle sconfitta non solo militare ma politica, etica e ideologica di una guerra da essa stessa causata, con il conseguente crollo dei regimi totalitari, rischia di costituire a tutt’oggi una fenditura abissale dentro la potrebbe precipitare una volta per sempre.

L’interesse per le vicende ebraiche, e soprattutto per lo sterminio, dopo la fine della guerra, nella destra radicale fu da subito prossimo allo zero. Da un lato, se accusati delle corresponsabilità di un recente passato così tragico, la dichiarazione d’irresponsabilità fece da subito seguito. La colpa era dei tedeschi. Dall’altro canto, a partire dalla stampa underground, che già nel 1946 diede manifestazione di sé (datava al dicembre di quell’anno la nascita del Movimento sociale italiano), gli atteggiamenti assunti pubblicamente, se da un lato manifestavano la permanenza di tutto l’arsenale antisemita, dall’altro cercavano di rimuovere il più possibile l’attenzione verso la presenza ebraica in Italia.

Peraltro, il Msi e il pulviscolo di organizzazioni che gli ruotavano intorno, ben presto – anche in omaggio ad un’irrisolta identità “terza-forzista”, di chiaro e rigidissimo stampo anticomunista  non meno che ostile, per un certo periodo, alla presenza americana, vista come contaminatrice degli “autentici caratteri” nazionali e dell’indipendenza del Paese – andò orientandosi a favore di una parte del mondo arabo. Il nazionalismo che sprigionava dai processi di decolonizzazione nell’area del Mediterraneo meridionale e orientale veniva vissuto in due modi distinti e, al medesimo tempo, interconnessi. Il primo di essi, di chiaro stampo razzista, cercava di enfatizzare la necessità che gli europei rimanessero, ovunque possibile, a presidio del Continente africano; lo schema culturale di fondo era quello che il fascismo storico stesso aveva fatto suo dalla precedente esperienza coloniale liberale ed europea, dichiarando le popolazioni autoctone non sono solo incapaci di autodeterminarsi ma anche destinate a costituire una sorta di riserva per gli interessi della civiltà bianca. Si inscriveva in questa visione di puro dominio, la simpatia per l’Oas, l’organizzazione terroristica e golpista francese che si adoperò affinché l’Algeria non raggiungesse l’indipendenza.

Il secondo filone era invece quello che andava maturando, già negli anni Cinquanta, a favore dei popoli arabi, e di quelli musulmani, visti come i portatori di concezioni nazionaliste e socialistiche che sfidavano sia l’Urss che gli Usa. In quest’ultimo caso, l’avversione per il giovane Stato d’Israele, si rivelò assai più marcata che nel caso precedente. Peraltro, un aspetto che colpiva una parte della destra radicale, era ciò che andava considerando come impostazione “militarista” della società israeliana, nella quale, anche se faticava a dichiararlo, invece alcuni suoi esponenti parevano timidamente riconoscersi. Di lì a non molto, ossia con gli anni Sessanta e la contestazione studentesca, una parte dell’estremismo avrebbe tuttavia identificato nella figura del miliziano palestinese un punto di riferimento, in qualche modo replicando il modello del «soldato politico» (colui che combatte indefessamente una guerra di natura ideologica), anche se le preferenze espresse dal Movimento sociale italiano e dalle sue organizzazioni giovanili si sarebbero assestate nettamente sul falangismo libanese e sui movimenti armati di estrazione cristiana tradizionalista e conservatrice, un po’ tutti depositari dell’impronta e del lascito fascisti in Medio Oriente.

La centralità del tema d’Israele, quanto meno laddove esso venne affrontato sulle pagine della pubblicistica d’area, era peraltro anche un modo per spostare l’attenzione dal tema dello sterminio, a lungo omesso (oppure ambiguamente affrontato, anche se una componente dichiaratamente negazionista emergerà timidamente in Italia solo nel 1963, con la pubblicazione da parte di Franco Freda di un volumetto di tale ispirazione), verso gli effetti della disarticolazione del sistema coloniale europeo. In realtà, per la destra anti-costituzionale, fino agli anni Ottanta, la «questione ebraica» ebbe un peso pressoché irrilevante, se si fa eccezione per coloro, e non furono comunque pochi, che si riconoscevano nel «razzismo spirituale» di Julius Evola, carismatico personaggio nel pantheon intellettuale della destra. I nessi impliciti in tale dottrina, a tutt’oggi, sono quelli che legano le tradizionali immagini pregiudiziose dell’ebraismo (l’usura, la rapacità, la volontà di dominio, il complotto, l’ibridazione razziale) alla denuncia dell’«imperialismo» sia sovietico che americano. Anticomunismo e antimodernismo – allora – si incontrano, ancora una volta, suggellando una sorta di patto di reciprocità ideologica sulla scorta del convincimento che la “degenerazione” introdotta dai vincitori della Seconda guerra mondiale nelle società europee costituirebbe il prodotto di uno spirito e di una mentalità ebraiche, orientate entrambe alla corruzione della moralità dei popoli superiori.

Peraltro il tema d’Israele diventò patrimonio polemico anche delle componenti maggiormente minoritarie della destra eversiva, a partire dalla corrente cosiddetta «nazi-maoista» di Franco Freda e dalla sua effimera organizzazione, Lotta di popolo, che già negli anni Sessanta denunciava il «genocidio che si starebbe consumando ai danni dei palestinesi». Da quel nocciolo sarebbero poi germinati, attraverso molteplici passaggi, quelle formazioni politiche minori che, oggi a destra di Fratelli d’Italia e della Lega, continuano a coltivare il nesso tra Israele, ebraismo e congiura mondiale contro la collettività mondiale. Una visione, quest’ultima, invece rigettata dalla destra di governo che ha coltivato molto, a partire dagli anni Novanta, dopo la morte di Giorgio Almirante, il rapporto con Israele, sovrapponendolo a quello con le comunità ebraiche peninsulari.

L’antisemitismo, per le formazioni della destra radicale, rimane in sé un motivo ideologico imprescindibile e quindi irrinunciabile. Proseguendo in un filone che si era già affermato nell’Ottocento, a partire dalla Francia controrivoluzionaria, per diventare strumento di orientamento nella costruzione dei giudizi di senso comune, l’equazione tra ebraismo e modernità (quest’ultima intesa come distruzione di ciò che è conosciuto con i nomi di «tradizione», «valori», «natura» e così via) continua a funzione come strumento di interpretazione e denuncia della manipolazione che le élite dirigenti, manovrate dalle massonerie giudaiche, eserciterebbero contro il «popolo».

Diverso è stato invece l’impatto sui partiti a base parlamentare, a partire dal Movimento sociale italiano. In questo caso, i conti con la tragedia dello sterminio non sono mai stati chiaramente fatti, propendendo prima per una linea per più aspetti riduzionista (necessaria per differenziare la condotta della Repubblica sociale italiana, giudicata bonariamente o comunque con indulgenza, rispetto a quella assunta dai tedeschi, ai quali si imputa totalmente la feroce acrimonia delle persecuzioni e, soprattutto, delle deportazioni) e poi per una specie di calcolato oblio, dove le obiezioni sulla condotta contro gli ebrei dal 1938 in poi vengono risolte nei termini di una improvvida concessione fatta all’alleanza con Hitler. Rimane comunque il fatto, al netto di queste razionalizzazioni ideologiche e politiche, che già negli anni Cinquanta per il neofascismo parlamentare la memoria della distruzione delle comunità ebraiche europee costituisse un elemento di crescente imbarazzo. Mal si poteva conciliare, infatti, con la riproposizione di un regime, e dell’immagine di Mussolini, delle quali si enfatizzavano le intrinseche qualità di contro alla «degenerazione democratica».

In questo genere di argomentazioni, che sarebbero proseguite nel tempo, entravano in campo diversi elementi: il primo di essi era l’ovvio rigetto dell’antifascismo, all’interno del quale veniva comunque inserita l’intera tematica ebraica (l’unica deroga possibile era quella, esposta in alcuni scritti di singoli autori – comunque rappresentativi solo di sé stessi – di natura meramente commiserante e compassionevole: “poveri ebrei, non meritavano ciò che hanno subito; in fondo, potevano essere considerati ancora sinceri fascisti, come nei fatti lo siamo stati noi”); il secondo era invece il calco razzista, che il fascismo storico portava con sé come elemento costitutivo, ossia come sua stessa ragione d’essere (la «nazione» come unione di esseri etnicamente omogenei, ossia identici, tali anche perché avversi agli ebrei, altrimenti “stranieri in patria”), destinato quindi a ripetersi negli schemi mentali dei suoi prosecutori dopo il 1945; il terzo fattore era la sovrapposizione tra giudaismo e bolscevismo, che permase a prescindere, anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e che a tutt’oggi, benché in assenza del comunismo storico, è una sorta di vademecum delle destre radicali. La qual cosa, in quest’ultimo caso, indica che ciò che si definisce come «ebreo» continua ad appartenere al campo del perturbante, ossia di quanto genera disordine. A prescindere dai riscontri concreti. Se il fascismo di sempre si presenta come «ordine», per quale motivo i neofascisti dovrebbero accettare ciò e coloro che ritengono, da sempre, come la negazione di quest’ultimo?

Al netto di altre considerazioni: si può benissimo dichiarare stima per Israele, ovvero per la sua condotta nel proscenio internazionale,  a prescindere dalla sua stessa originaria natura di Stato ebraico e democratico al medesimo tempo, senza per questo sentirsi legati (ancora meno affratellati) all’idea di «ebreo», che in cuore e mente propria si continua invece a nutrire. Il pregiudizio radicato può benissimo disgiungersi, all’atto concreto, dal giudizio sui singoli fatti, sugli attori specifici, sull’evoluzione delle cose. In questo caso, un’idea di Israele «senza ebrei», ossia un paese ebraico che fa a meno dei connotati che sono oggetto di pregiudizio mentre esibisce – a detta dei suoi apologeti acritici – le presunte virtù collegate alla prevaricazione, al militarismo, ad una sorta di intrinseco suprematismo identitario, può benissimo conciliarsi con un perdurante antisemitismo, attenuato solo da un razzismo di segno tanto contrario quanto speculare. Qualcosa del tipo: “odiamo gli sconfitti di sempre; un tempo erano gli ebrei, oggi sono altri”. Non per questo, beninteso, si rivaluterà e si accetterà in tutto e per tutto il «Weltjudentum», il complotto mondiale degli ebrei contro i gentili, quindi i non ebrei. Oggi l’una cosa, ovvero un irrisolto credito attribuito ad Israele e la persistenza del razzismo antiebraico, possono comunque benissimo coesistere nei medesimi soggetti. Poiché, e non si tratta di un paradosso, se si stima in ipotesi l’azione di uno Stato sovrano al medesimo tempo si continua a ripudiare la presunta condotta di un gruppo di individui da sempre etichettati come estranei alla propria collettività, agenti di una sorta di perversione dei medesimi caratteri nazionali propri.

Altri elementi, endogeni ed esogeni alla composita area delle destre radicali e post-costituzionali, possono ovviamente essere computati. Ma ai fini di questa riflessione, poco rilevano. Semmai, è necessario tornare su alcuni passaggi critici, in sé di stretta natura storica. Per meglio capire ancora di che cosa si stia parlando. Poiché anche in questo caso le commistioni a nulla servono se non a rendere più fosco e, soprattutto, plumbeo l’orizzonte della comprensione. Già negli anni Ottanta il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, il soggetto politico dal quale l’attuale destra post-costituzionale trae le sue autentiche radici (quindi, un soggetto politicamente diverso dalla destra eversiva ma non per questo ad essa del tutto estraneo, continuando a condividere con la medesima una sorta di rigetto della Costituzione democratica), aveva avviato un percorso di revisione della sua collocazione rispetto al tema ebraico. La qual cosa rispondeva sia al bisogno di verificare l’aderenza delle proprie posizioni rispetto al più generale mutamento del quadro interno e internazionale (un esempio, tra i tanti, nel caso di Israele, l’alleanza tra l’esercito di Gerusalemme e le milizie falangiste cristiane, durante la guerra in Libano del 1982), sia la maturazione di un percorso che rendeva sempre meno plausibili categorie di lettura del tempo corrente basate su meri stereotipi reducistici. Se Almirante inizia questo itinerario, sarà poi Gianfranco Fini, soprattutto con la cosiddetta «svolta di Fiuggi» del 1995 – quando il partito si dichiarerà al medesimo tempo ultimo erede e definitivo esecutore testamentario della destra fascista, oramai trascorsa e defunta – a ultimare una prima parte di un viaggio a tutt’oggi comunque in corso.

Nell’acquisizione di alcuni tematiche non fasciste (abbandono dell’antiamericanismo; collocazione europeista; filo-atlantismo; adesione ad un’idea di destra democratica e modernizzante ancorché fondata sull’idea di «nazione italiana»; superamento delle residue suggestioni corporative, nazionalizzanti e pseudo-socialistiche, accentando il liberismo economico; rigetto di una visione razzistica delle relazioni internazionali, altrimenti basate sulla superiorità di un gruppo etnico rispetto agli altri), si manifestava anche la revisione dei groviglio di temi legati alla specificità ebraica in Italia, in Europa, nel mondo. Una questione, quest’ultima, che per il post-fascismo risultava dirimente, portando con sé un elevato valore simbolico. Non a caso, il rigetto dell’antisemitismo veniva fatto coincidere sempre più spesso con la lotta contro l’antisionismo, legando una volta per sempre ebrei, e Diaspora, ad Israele. Da quest’ultimo nesso bisogna quindi ripartire per comprendere quali siano stati i mutamenti, laddove essi si sono manifestati, nel rapporto tra le destre illiberali e l’immagine che esse nutrono della società ebraica, in Italia così come nel resto del mondo.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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