La recensione de “Il cimitero dei libri. La Genizà del Cairo: un mondo perduto e ritrovato” di Adina Hoffman e Peter Cole
Il titolo italiano del libro di Adina Hoffman e Peter Cole, che solo in parte riprende quello originale inglese, La Genizà del Cairo: un mondo perduto e ritrovato, non è un titolo ad effetto. Mantiene, lungo un racconto di circa duecento pagine, quello che promette: la scoperta della vita degli ebrei nell’Oriente medievale. Un mondo variegato e cosmopolita, ricostruito o per meglio dire dissepolto attraverso lo studio di centinaia di migliaia di frammenti di testi. Da composizioni liturgiche e responsa rabbinici ai contratti di matrimonio e divorzio. Testi eterogenei da cui traspaiono non solo differenti registri linguistici, ma anche il ricorso a differenti lingue a seconda del contesto d’uso e delle finalità: dall’ebraico di poesie (sacre e profane) e del Mishné Torah al giudeo-arabo delle missive private. Nei fogli pigiati gli uni sugli altri e accumulatesi nel corso del tempo nella Genizà di Fostat i diversi fili che tessevano il mosaico umano e linguistico dell’ebraismo medio-orientale si trovano l’uno all’altro intrecciati restituendo una matassa il cui valore è dato dall’insieme piuttosto che dalle singole parti. Ma che cosa si intende per Genizà? La parola deriva dal persiano e significa “tesoro nascosto” e anche “riserva” e venne poi ad indicare il luogo preposto – fosse un orcio di creta o un piccolo armadio – a riporre quei documenti che, contenendo uno dei nomi di Dio, non potevano – secondo la norma – venir distrutti. Norma che, informano gli autori, venne forse estesa, nella fiorente comunità del Cairo, sino a includere “qualsiasi testo redatto nell’alfabeto ebraico” quasi a suggerire, ricorda uno studioso, “che “l’impiego stesso dell’alfabeto ebraico” santificasse “la parola scritta”. Il luogo generalmente prescelto per il nascondimento era una stanza appartata, una sorta di ripostiglio, un bugigattolo segreto, ubicato in un luogo remoto della sinagoga, come quella di cui si parla in questo libro: la sinagoga di Ben Ezra, nel vecchio Cairo, luogo di ritrovo e di scambio della vivace comunità. Lo straordinario patrimonio di scritture, eclettico e di importanza inestimabile, rimasto nascosto per quasi mille anni, è oggi reso accessibile, grazie ad una tecnologia avanzata messa a punto e continuamente aggiornata da un’équipe di ricercatori di tutto il mondo che insieme, nelle diverse discipline, collaborano e procedono nello scambio dei risultati.
Per decenni, tuttavia, le cose andarono differentemente: gli studiosi, qualsiasi fosse la loro formazione e provenienza, agivano in modo circospetto, tentando in tutti i modi di depistare eventuali colleghi. Le operazioni di “scavo”, le perlustrazioni, seguivano norme rigorose per evitare di dare nell’occhio. La segretezza era d’obbligo e il clima cospirativo si respira fin dalle prime pagine del libro quando inizia la storia avvincente del primo “scopritore”, Solomon Schechter, da anni ormai residente a Cambridge, che nel 1896 si precipita in Egitto per accertarsi, come aveva intuito, che il frammento che gli era stato mostrato dalle intraprendenti sorelle Agnes Lewis e Margaret Gibson, appartenesse all’originale ebraico del Siracide, il testo apocrifo conosciuto anche come Ecclesiastico o Ben Sira, sparito per circa un millennio e di cui si riteneva le uniche versioni sopravvissute fossero quelle in greco o in siriaco.
Cara Mrs Lewis, ritengo che abbiamo tutte le ragioni per congratularci. Perché il frammento che ho preso con me rappresenta un pezzo dell’originale ebraico dell’Ecclesiastico. E’ la prima volta che viene fatta una scoperta del genere. Vi prego di non parlarne ancora.
La stessa circospezione si ritroverà sessant’anni dopo quando il “ri-scopritore” della Genizà, Shelomo Dov Goitein, scriverà allarmato alla moglie, a Gerusalemme, “di non parlare ancora della cosa”. Ciò che colpisce è non tanto la semiclandestinità in cui operavano i singoli studiosi, quanto l’aperta concorrenza fra prestigiose istituzioni, che senza esclusione di colpi miravano ad acquisire il patrimonio documentario e letterario, anche in modi non sempre leciti. Un esempio per tutti è il raggiro dei controlli doganali, sia quelli egiziani; sia quelli inglesi (l’Egitto era sotto il loro dominio); sia quelli francesi perché, viene precisato nel libro, il “Servizio delle Antichità”, era sotto la loro giurisdizione. Ma di questo ultimo aspetto non vi è un approfondimento ed è un peccato. Gli autori sottolineano, senza però entrare nel merito, come “la linea di confine tra il saccheggio e il recupero di questo genere di ricchezze è molto sottile”. Sono temi dibattuti da sempre e che non trovano facile soluzione come dimostrano le ripetute richieste di restituzioni di beni da parte di alcuni Stati, europei e non. Forse un discrimine può essere se i reperti, in qualsiasi modo ottenuti, finiscano in collezioni private o in istituzioni pubbliche.
Fatto sta che in quelle terre mediorientali, mentre il commercio di beni archeologici, come di altro materiale prezioso, era già molto fiorente nel corso di tutto l’Ottocento (nonostante le norme promulgate), l’interesse per i manoscritti ebraici iniziò a crescere lentamente, ma progressivamente, verso gli ultimi anni del secolo coinvolgendo, come si racconta, anche alcuni rabbini. E’ il caso di Shelomo Aharon Wertheimer, residente a Gerusalemme, conosciuto come esperto bibliofilo, in contatto con mercanti, amatori e bibliotecari ai quali dispensava i propri pareri, cercando di vendere loro i “pezzi” egiziani di migliore qualità. Ma Wertheimer fu anche il primo studioso ad aver trascritto, seppure in modo non scientifico, una piccola parte dei materiali conservati nel deposito. E’ oggi considerato il padre fondatore degli studi sulla Genizà.
Il fortuito ritrovamento del frammento di Ben Sira, testo composto tra il 450 e il 150 prima dell’era volgare, probabilmente a Gerusalemme e tradotto successivamente in greco, ad Alessandria, suscitò nel mondo accademico un grande interesse, di cui il libro dà ampio conto. Si giocava, qui, una partita fondamentale per Schechter, fiero oppositore di quelle tesi che, con Julius Wellhausen, riducevano l’ebraismo del Secondo Tempio ad un culto sacerdotale meramente meccanico, “mentre il giudaismo post-Tempio o rabbinico veniva liquidato come una forma di legalismo spiritualmente sterile”. Tesi insistite negli anni, la cui cifra era l’opposizione tra legge, da una parte, e morale e spiritualità dall’altra: “La Legge si intrufola dappertutto (…) blocca l’accesso al cielo (…) rovina la moralità”. Più strutturalmente la “teoria della fonti”, a partire da un’attenzione filologica al testo biblico, tendeva a “vivisezionare” quest’ultimo infrangendo il paradigma, proprio alla Tradizione, dell’unità della Torah scritta e della continuità con quella orale. Convincimento di Schechter era che, una volta ritrovato il testo del Ben Sira, avrebbe potuto “paragonarne la lingua a quella dei testi biblici” trovando così “l’anello che collegava” il Beit HaMikdash con il Beit HaMidrash, l’ebraismo rimodellato dopo la distruzione del Tempio. Dove la distinzione non è cesura. D’altronde tale genere di critica si ritroverà più volte, seppur diversamente declinato, nella storia, indicando la difficoltà a comprendere o accettare il significato che la Tradizione attribuisce a Torah scritta ed orale e al loro indissolubile legame.
Nodo, tuttavia, che non si pone solo nei rapporti tra le genti e Israel. È quanto Schechter avrebbe scoperto man mano che le carte della Genizà facevano affiorare la portata del movimento karaita. Con apparente paradosso è proprio la Genizà di una sinagoga rabbanita (rabbinica) ad aver conservato i documenti che attestano i prodromi di questo movimento, che si caratterizza per il rifiuto della Torah orale, a partire da Hiwi al-Balkhi. Il paradosso è, appunto, apparente. Dalla Genizà affiorerà – in parallelo – la testimonianza di quella che fu tra le più organiche risposte offerte, da parte rabbinica, alla sfida karaita. Si tratta delle carte recanti segno dell’opera di Sa’adia HaGaon. Considerato per certi versi dagli Autori “un pensatore assai più originale, critico e avvincente di Maimonide”, la Ghenizà ce ne restituisce trentuno risposte “redatte in bell’ebraico” rivolte, a distanza di lustri, ai duri attacchi di Hiwi al-Balkhi. È l’inizio di quell’offensiva anti-karaita che da Sa’adia giungerà sino a Maimonide. Sarebbe stata proprio la nuova attenzione prestata dai karaiti alla Torah e alla grammatica ebraica a costringere “per così dire, i vertici rabbinici a eguagliare l’intensità e lo stile del loro studio della lingua ebraica e del suo più importante prodotto letterario”. Il caraismo fu, secondo Jacob Mann, “un lievito” alla rinascita della cultura ebraica “da Baghdad al Cairo, a Cordova e a Granada […]”. Sarebbe stata dunque la ricezione – per reazione e contrasto – di alcune istanze del caraitismo ad aver in ultimo determinato il fiorire, in Andalus, non solo di un nuovo uso liturgico dell’ebraico, ma anche l’adozione di questo per la poesia di ambito secolare. Da Sa’adia a Dunash, “fondatore della nuova poesia andalusa in lingua ebraica”, di cui la Ghenizà, grazie allo studio di Jefim Hayym Schirmann, avrebbe restituito inediti materiali.
D’altronde, andando a ritroso, è proprio per la ricostruzione della poesia ebraica medievale che la Genizà caraiota si mostrerà, come gli studiosi via via confermarono, preziosa fonte. Un esempio, fra i tanti che il volume riporta è la scoperta fatta da Israel Davidson, al Jewish Theological Seminary di New York. Nel 1910, intento a decifrare alcuni manoscritti custoditi nelle casse inviate vent’anni prima da Schechter a Cambridge e poi emigrate con lui negli Stati Uniti, il giovane si era imbattuto in un testo con istruzioni sulla procedura di un servizio di preghiera scritto da un, allora, semi sconosciuto Yannai. Di carattere liturgico e “scritte su commissione” per il momento della preghiera, le poesie di Yannai si intersecano con i midrashim, vuoi perché da questi attinge dal punto di vista del contenuto vuoi perché ne prosegue a suo modo il senso: quello di un commento, ai margini della lettura settimanale della Torah, dove l’approfondimento di un passo diviene occasione per “intensificare” il momento liturgico, tanto da far accorrere anziani e giovani, spinti dal desiderio di ascoltare una “parola nuova, viva” che “stimolasse il pensiero e servisse di sprone all’immaginazione”.
Quello di Davidson fu l’inizio di altri importanti ritrovamenti poi pubblicati nel volume, a sua cura, Poetic Fragments from the Cairo Genizà, il primo di una serie di contributi dedicati all’opera di “uno dei titani della poesia ebraica”. Il suo lascito, circa un quarto di milione di frammenti, distribuito nelle biblioteche di tutto il mondo, costuituisce il cuore dell’Istituto per lo studio della poesia ebraica, inaugurato a Berlino nel 1930. Qui Menahem Zulay si dedicò alla raccolta di copie fotostatiche dei testi della Genizà sparpagliati nel mondo (ben settantacinque collezioni pubbliche e private conservano questi beni), nella convinzione che “ogni pagina è una poesia racchiusa nella morsa del ghiaccio. E’ necessario ripulirla dai detriti delle generazioni; deve essere risvegliata e riportata in vita”.
Tolte dal ghiaccio che le ha conservate queste poesie, non meno che gli altri documenti conservati, riportano alla luce, a ondate progressive, un universo vivace, attraversato da diatribe di ordine giuridico-teologico non meno che segnato dalle diverse sfumature proprie all’esistenza. Tonalità, forse meno sgargianti, restituite dal lavoro meticoloso di studiosi come Schirmann e Goitein. Grazie a Schirmann siamo in grado di apprezzare, per esempio, l’unica poesia “composta da una donna nell’intero canone ebraico medievale” nonché “l’ingresso nella lingua ebraica dell’immagine omoerotica” della “gazzella”, mutuata dai poeti arabi. Elementi prosaici e ‘marginali’ rispetto al cuore della Tradizione che nondimeno, in virtù dell’ebraico, furono custoditi dalla Genizà. Quasi a ricordarci che come l’ebreo è tale in ogni diverso frangente della propria vita, così lo è l’ebraico. È proprio l’attenzione al quotidiano a segnare la ri-scoperta della Genizà avvenuta grazie a Goiten. È ancora la lingua ad indicare l’elemento saliente: Goieten presta inedita attenzione al giudeo-arabo, ossia alla “traslitterazione in ebraico di un arabo colloquiale, quale era usato nella parlata comune”. Alla lingua e scrittura di ogni giorno. Quella stessa cui Maimonide sarebbe ricorso per il suo commento alla Mishnà. In giudeo-arabo erano redatte le diverse missive, sovente di tipo commerciale, attraverso cui Goiten sarà in grado di restituire il mondo dell’ebraismo sefardita ed orientale. Recupero alla memoria di quello che fu il cuore pulsante di una stagione decisiva dell’ebraismo– certo – ma anche apertura a uno sguardo ‘da oriente’ sull’Israele contemporanea. È infatti sulla scorta dell’attenzione prestata al giudeo-arabo, che reca nella sua stessa denominazione il punto di intersezione tra due mondi, che possiamo cogliere il senso della prospettiva politico-culturale propria a Goiten. A un tempo “sionista di estrema sinistra” e “tradizionalista”, senza farsi illusione alcuna sulla realtà dei rapporti tra ebrei e arabi (tanto da distanziarsi dall’Ihud di Buber), non cesserà con ciò di indicare i “legami profondi” che “univano i due popoli” sostenendo che la loro nuova prossimità, con la nascita di Israele, apriva, ad un tempo, alla possibilità di benefici e pericoli.
Infine rileviamo – complice l’ambiguità di cui la Genizà era oggetto, vista ora al limite del pattume, ora come preziosa risorsa – un filo conduttore di carattere quasi esistenziale: ciò che è scartato, messo ai margini diviene oggetto di nuova cura e attenzione da parte delle diverse generazioni di studiosi di cui, con scrittura lieve ma non superficiale, il testo ripercorre gesta, tormenti, gioie. Senza dimenticare il Ben Sira, Sa’adia HaGaon o Yannai, è tuttavia la microstoria, il margine, a dimorare – senza con ciò spostarsi al centro – essenziale. Non è forse, questa, una tensione specifica di Israel, dove all’enunciazione dei grandi principi di fede o delle norme vincolanti si accompagna, come essenziale controparte, lo studio vivo delle eterogenee opinioni che dai responsa risalgono sino alla Ghemarà e alla Mishnà, e dove alla grande storia collettiva, fatta di lacerazioni e fecondi incontri con le genti, si accompagna la memoria minuta, restituita magari in una lingua cosiddetta spuria, a metà tra ebraico e arabo, di una madre ebrea che, scrivendo in giudeo-arabo al figlio lo implora: “in nome di Dio […] mandami le tue camicie sporche e consumate per ravvivare il mio spirito”.
Sandra Sicoli, storica dell’arte, ha lavorato presso la pinacoteca di Brera e la soprintendenza alle Belle arti di Milano.
Cosimo Nicolini Coen è laureato in Ermeneutica filosofica e Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Milano, attualmente è dottorando a Bar Ilan. Ha pubblicato il libro Il segno è l’uomo per Durango Edizioni