Israele
La poesia, una forma di resistenza

Al caffè Tamati di Tel Aviv la gente ha ripreso a incontrarsi e tra gli habituè c’è chi ha scelto la poesia per non impazzire in questa guerra che non accenna a finire

Poche sedie, qualche cassetta del latte sul marciapiede per permettere agli habitué di “sedersi”. Il caffè Tamati, a due passi dal mercato di Shuk ha Carmel, cuore pulsante di Tel Aviv, è più di una semplice torrefazione: è un luogo dell’anima.
Esposti sugli scaffali – tra una Bialetti e l’altra, tazzine in ceramica fatte a mano da artisti locali, e altri gioielli per gli amanti di caffè, tè e matcha – i libri di alcuni dei suoi assidui frequentatori: da Shabbat di Adeena Sussman, a Tel Aviv, mondo in tasca, della sottoscritta.

Non mancano nemmeno libri di poesia, alcuni scritti per diletto in momenti di svago, come Metronom di Claudio Kogon, direttore del Susan Dallal Center for Contemporary Dance, altri ancora in fase di “lavori in corso”.
Come la raccolta di poesie di David Moss, che ha cominciato a scrivere con l’inizio della guerra. David non è scrittore di professione, ma fin dai tempi dell’Università, quando studiava filosofia, ha sempre utilizzato la scrittura per cercare di mettere “ordine” nei suoi pensieri, nelle sue paure, nelle sue fragilità.
Nato e cresciuto a Gerusalemme, terminato il servizio militare ha studiato filosofia prima presso l’Università di Tel Aviv e poi all’Università di Londra, dove ha vissuto per 10 anni prima di tornare a Tel Aviv, nel 2010.
Durante i suoi studi ha lavorato per alcuni anni come Data-Analyst e successivamente come broker nel mercato immobiliare di Tel Aviv, dove ora vive con la sua compagna, Michal.

Lo vedo bere il caffè da Tamati tutti i giorni, da anni, ma non ci siamo mai rivolti la parola fino al 7 ottobre.
All’inizio, per circa una settimana, ci siamo tutti barricati in casa temendo che forse erano davvero giunti gli ultimi giorni, sia per lo Stato di Israele che per noi, come essere umani.
Poi si è cominciato, con molta cautela, ad uscire di nuovo, e si è capito che era ancora peggio di quel che si pensasse. Che il silenzio, più di qualsiasi altra cosa, caratterizzava le lunghe, infinite, giornate – e nottate – israeliane.
Il silenzio per le strade ma anche il silenzio tra le persone, troppo sconvolte per parlare o, ancora peggio, ormai rimaste senza parole.
Ogni mattina, dopo aver portato mio figlio a scuola come se fosse una cosa del tutto “normale” – mentre continuano i bombardamenti di Hamas da 70 giorni, con oltre 12.000 missili, di cui 2.000 caduti nella stessa Striscia – provo “normalmente” ad andare a bere un caffè nel mio bar sotto casa, per provare a sentirmi “normale”. Tra gli altri, seduti sulle cassette del latte, c’è David. Da allora ci parliamo tutti i giorni. Non solo io e lui, ma chiunque si sieda al bar.

Ci si parla per cercare di preservare quella parvenza di “normalità”, mentre la vita di nessuno è più quella di prima.
Chi non ha un parente nella lista dei morti del 7 ottobre o in quella degli ostaggi, ne ha uno al fronte, che ancora non si sa se e quando tornerà.
“Che cosa scrivi oggi?” mi chiede David, sapendo della mia professione di giornalista.
“Ormai non so più cosa scrivere: mi mancano le parole…” gli rispondo io, buttando giù il caffè come se si trattasse di uno sciroppo salvifico.
“Io, per rimanere sano di mente, mi sono messo a scrivere poesie” mi dice David.
E io, per rimanere sana di mente, mi sono permessa di tradurre e condividere le sue parole.
Perché sono sue. Mie. Nostre. Sono il sentimento di un intero Paese.

“Semi malati di frutti avvelenati,
incroci empi di radici marce
Sotto un cielo azzurro mattutino
Crimini indicibili
Anche l’Onnipotente si è inginocchiato davanti a quell’uomo
che non poteva piangere
Da terreni intrisi di sangue
i semi sparsi, profondi e lontani,
Lontani dai parcogiochi, dove una volta erano così felici, ora giacciono i bambini

Semi malati di frutti avvelenati
incroci empi di radici marce
Sotto il sole cocente di mezzogiorno
Crimini insopportabili
Dio si sta ancora nascondendo dall’uomo
che ora vuole morire
Sulle ali sanguinose della guerra
quei semi volano, profondi e lontani,
lontano dalla Terra Santa, dal popolo eletto,
da coloro che pregano cinque volte al giorno

Semi malati di frutti avvelenati
incroci empi di radici marce
Sotto una notte buia senza luna
i giusti camminano sulle loro posizioni
accecati dal vitello d’oro, stregonerie
e tutte le maledette bugie
Su verdi pascoli
giacciono quei semi, nel profondo e da lontano
hanno ricominciato da capo, a crescere di nuovo
nutrendosi solo di anime perdute e carne umana”

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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