Hebraica
La rottura del bicchiere nella cerimonia nuziale. Significati, tradizioni e dubbi attuali

Storia di un rito antichissimo che oggi viene messo in discussione

La famosa canzone Jerusalem di Matisyahu ha dato grande risonanza a un già celebre versetto del Libro dei Salmi. Il rapper, negli anni, ha fatto molto parlare di sé e si è fatto conoscere anche per aver inserito riferimenti alla cultura ebraica e alla Torah nei testi delle sue canzoni. In questo specifico brano il ritornello cita il Salmo 137, e recita: “Jerusalem if I forget you, fire not gonna come from me tongue. Jerusalem if I forget you, let my right hand forget what it’s supposed to do”.
Questo stesso verso, diventato ormai popolare, viene pronunciato nella sua versione originale durante la cerimonia nuziale ebraica: c’è un momento preciso (le tempistiche variano a seconda delle tradizioni locali) in cui un bicchiere di vetro viene avvolto in un panno, posizionato sul pavimento e un membro della coppia di sposi lo calpesta con il piede e lo rompe, mentre gli invitati iniziano i festeggiamenti urlando “mazal tov”. Il versetto in questione, “Im eshkachech Yerushalayim, Tishkach yemini” (“Se ti dimentico Gerusalemme, la mia destra si dimentichi di me”), viene pronunciato in accompagnamento alla celebre usanza del calice rotto e aiuta a capirne il significato.

La distruzione del tempio
L’origine dell’usanza sopracitata è rintracciabile in un episodio menzionato nel Talmud (Berakhot 5,2), spiega Anita Diamant in un articolo: durante il matrimonio del figlio di Mar, l’allegria degli invitati era diventata eccessiva e molto chiassosa, così un rabbino, infastidito, ha afferrato un prezioso calice di vetro e lo ha rotto per catturare l’attenzione e far sì che si ridimensionassero i festeggiamenti.
Soltanto intorno al XIV secolo, il rito assume la forma e il significato che gli viene attribuito ancora oggi, esaustivamente spiegato da Maurice Lamm su Chabad.org: “Il bicchiere rotto rappresenta i frammenti della nostra gloria passata e la distruzione dell’antico Tempio, avvenuta nel primo secolo. La menzione a Sion ci ricorda che una grande gioia può essere cancellata, in qualsiasi momento, da un dolore improvviso”. Non bisogna mai dimenticare, neanche nei momenti più allegri delle nostre vite, che il popolo ebraico ha patito molte sofferenze nei secoli e che noi da quel dolore non possiamo separarci: questa riflessione arricchisce la gioia stessa poiché la rende più consapevole e ci aiuta a collegare la storia del popolo ebraico con il presente.
Spiega Rabbi Lawrence Hajioff nel suo libro Will Jew Marry Me? che l’usanza di calpestare un calice è una delle azioni che facciamo per mantenere vivo l’antico Tempio nella nostra coscienza collettiva. Con questo gesto i neosposi si assumono l’obbligo di contribuire alla ricostruzione simbolica del Tempio: se la casa che costruiranno ospiterà lo spirito ebraico saranno riusciti nel loro intento.

L’importanza del vetro
Il calice utilizzato per questa usanza è lo stesso che, durante la cerimonia nuziale, viene riempito di vino e impiegato per la prima serie di benedizioni. Lo stesso anche da cui gli sposi bevono insieme per la prima volta. La fragilità del vetro, suggerisce Anita Diamant su MyJewishLearning, rimanda alla fragilità delle relazioni umane, sappiamo che anche quelle più forti e salde corrono il pericolo della rottura. È un promemoria e allo stesso tempo un invito per la nuova coppia a impegnarsi, amarsi e proteggersi; per contrasto questa usanza sembrerebbe augurare agli sposi che il loro amore possa non rompersi mai, contrariamente al calice invece che va rapidamente in frantumi.
Tuttavia, il vetro non è di certo l’unico materiale frangibile, fa notare Rabbi Lawrence Hajioff. Rompere un piatto di ceramica o un vasetto di porcellana avrebbe sortito lo stesso risultato simbolico. Ma il vetro si porta dietro una connotazione diversa, perché può essere riassemblato e ricostruito dopo essere stato distrutto: è sufficiente fonderlo e sottoporlo a una nuova lavorazione e modellazione per avere un risultato a volte anche migliore di quello originale.

Qualche dubbio
Tra le fila del rabbinato internazionale c’è anche chi, in tempi recenti, ha espresso qualche perplessità su questa tradizione. Tra questi, Rabbi Ovadia Yosef che, come descritto in un articolo di Israel National News, ha proposto l’eliminazione di questo antico rito: nella sua opinione la reazione degli invitati alla rottura del bicchiere non è appropriata e non ha niente a che vedere con il significato di questa usanza. Gli invitati sentono il rumore del vetro e fanno partire i festeggiamenti, noncuranti del fatto che il calice rotto dovrebbe indurre a riflettere, anche solo per un momento, sul dolore. 
D’altra parte però, fa notare Maurice Lamm nell’articolo The Breaking of the Glass Under the Chuppah, il mazal tov non è una risposta diretta alla rottura del bicchiere ma una reazione alla fine della cerimonia. “In ogni caso, non sarebbe responsabile eliminare una tradizione così antica soltanto a causa di una reazione poco appropriata di alcuni. Forse si potrebbe ristabilire il collegamento con Gerusalemme spostando l’usanza della rottura del bicchiere in un’altra fase della cerimonia nuziale”, propone Rav Lamm.

Che si voglia scegliere un calice vecchio, nuovo, prestato o colorato, fa poca differenza. Può essere avvolto in un fazzoletto di cotone, di seta o di velluto. Può essere calpestato dallo sposo, dalla coppia o dalla famiglia. Può addirittura essere lanciato contro un muro. L’importante è, in primo luogo, assicurarsi che il calice sia ben avvolto e il vetro non sia troppo spesso, per evitare di finire come quello sposo la cui sfortuna è stata raccontata su The Times of Israel: ha calpestato il bicchiere alla fine della sua cerimonia nuziale e si è ritrovato una grossa scheggia di vetro conficcata nel piede. Ma soprattutto è fondamentale, a questo punto, tenere a mente il significato dell’usanza a cui andrebbe dedicato un momento di esitazione e riflessione prima dell’inizio dei festeggiamenti.

Alessandra Sabatello
collaboratrice
Alessandra Sabatello ha 28 anni e vive a Roma. Ha una laurea in lettere e una passione per tutto ciò che è organizzabile e pianificabile (eventi, viaggi, progetti..). Per quattro anni ha lavorato nel mondo delle fiere librarie ed è una dei tre inquilini della Moishe House di Roma.

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