Hebraica
La scuola elementare al tempo del Talmud

Sette anni di istruzione obbligatoria per tutti

L’insegnamento è un tema che già la Torà affronta, con particolare insistenza nel libro di Devarim/Deuteronomio. Qui, per esempio, ricorre nelle due prime pericopi che, unite a un brano di Bemidbar/Numeri, compongono lo Shemà. Nel primo brano della preghiera (Dt 6,4-9) si dice:

Saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore, le ripeterai ai tuoi figli (veshinantam levanecha) e ne parlerai (vedibarta) con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.

Un messaggio ribadito impiegando un differente verbo, dunque con una sfumatura nuova, nel secondo brano (Dt 11,13-21):

Le insegnerete (velimadtem otam et-bnechem) parlandone (ledaber) con loro stando in casa, quando cammini per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.

Nel primo passo abbiamo il verbo “ripetere” (veshinantam deriva dalla stessa radice di mishnà, ripetizione), nel secondo “insegnare” (velimadtem appartiene alla stessa area semantica di talmid, studente, e talmud, insegnamento). In entrambi segue un riferimento esplicito ai figli (levanecha/et-bnechem), il cui apprendimento avviene per via orale come chiarisce l’impiego del verbo “parlare” (vedibarta/ledaber).

Il midrash normativo di tipo esegetico Sifrè sul libro di Devarim puntualizza specificando che ogni padre dovrebbe insegnare al figlio la Torà in ebraico. D’altro canto grazie alla Mishnà, al Talmud e al Midrash conosciamo piuttosto bene il sistema di istruzione rabbinica, l’ambiente delle accademie e il discepolato. Sappiamo meno della fase intermedia, apparentemente stretta e quasi schiacciata tra l’educazione famigliare, in linea di principio di tutti, e l’apprendimento avanzato successivo all’età della maggiorità religiosa per una minoranza di allievi modello. Tuttavia nei testi fondamentali della tradizione rabbinica compaiono cenni e anche alcune discussioni tra maestri che ci danno elementi per ricostruire l’istruzione elementare al tempo della Mishnà e soprattutto del Talmud.

Va anzitutto sottolineato che il contesto esistenziale della letteratura rabbinica, come ha scritto l’autorevole studioso tedesco Günter Stemberger, è costituito non soltanto da preghiera, esegesi e spiegazione omiletica nelle sinagoghe e dal sistema normativo-giudiziario, ma anche e in primo luogo dall’attività scolastica (Introduzione al Talmud e al Midrash, Città Nuova). Inoltre la scuola va intesa come il più potente veicolo di diffusione della civiltà rabbinica, che in età tardoantica e altomedievale si afferma progressivamente fino a imporsi quasi sull’intero mondo ebraico.

Stando al Talmud palestinese primo a stabilire l’obbligo della scuola elementare sarebbe stato Shimon ben Shetach con parole semplici ed essenziali: “I bambini devono andare a scuola”. Nel Talmud babilonese viene menzionato ed elogiato Yehoshua ben Gamla, sommo sacerdote pochi anni prima della grande rivolta contro Roma. Senza di lui, dicono i rabbini di età talmudica, la Torà sarebbe stata addirittura dimenticata. Esistevano già naturalmente forme di educazione famigliare, ma come è ovvio con enormi differenze tra le diverse famiglie. Viene portato inoltre come esempio il caso dei bambini senza genitori, destinati a crescere senza alcuna istruzione. Il problema andava tuttavia oltre il caso degli orfani a causa dell’incapacità di tanti genitori di fornire un’adeguata formazione ai figli. Allora i maestri istituirono una scuola a Gerusalemme per allievi di sedici e diciassette anni. Anche di questo modello però il Talmud sottolinea l’insufficienza quantitativa (una sola istituzione scolastica nella sola Gerusalemme) e qualitativa (l’età avanzata degli studenti), sottolineando la frequenza di problemi di condotta e abbandoni scolastici. Finalmente, conclude il Talmud, intervenne Yehoshua ben Gamla ordinando la fondazione di scuole in ogni provincia, città e villaggio, in modo da raccogliere tutti i bambini a partire dall’età di sei anni. Un ulteriore appunto rivolto da Rav al maestro di scuola Shmuel bar Shilat aggiunge un elemento non secondario alla vicenda. Non si accettino bambini di età inferiore ai sei anni, spiega Rav, per evitare le difficoltà di apprendimento a cui i più piccoli andrebbero altrimenti incontro.

Non siamo in grado di valutare il successo dell’iniziativa attribuita a Yehoshua ben Gamla. Come abbiamo visto i rabbini successivi dell’età del Talmud non hanno dubbi in merito, ma a causa dello sconvolgimento provocato nell’intero mondo ebraico dalla serie delle rivolte contro Roma tra I e II secolo e.v. è consigliabile una certa cautela. Sembra più plausibile che il sistema elementare di istruzione si sia affermato qualche tempo dopo la tragica fine delle rivolte antiromane e la distruzione di Gerusalemme sotto l’imperatore Adriano, dunque verso la metà del II secolo. Doveva però essere già consolidato nell’epoca della Mishnà, visto che viene proibita ai saggi la residenza in una città dove non vi sia un maestro per i bambini.

La scuola elementare – in ebraico bet sefer, “casa del libro” – doveva essere solitamente collegata alla sinagoga non solo dal punto di vista degli insegnamenti impartiti ma anche da quello architettonico. Oppure le lezioni si svolgevano nella sinagoga stessa. E le bambine? In linea di massima l’istruzione delle figlie femmine non viene presa in considerazione, anche se la Mishnà riporta una discussione tra maestri che si dividono sulla questione dell’eventuale obbligo per ogni padre di insegnare Torà alla figlia almeno su aspetti specifici. Per i bambini maschi, invece, il curriculum scolastico prevedeva innanzitutto la lettura del testo biblico. Secondo Avot deRabbi Natan gli studenti hanno il dovere di sedersi composti di fronte al maestro: non al suo fianco come dei pari e neppure su letti, sedie o panche ma accoccolati a terra, pronti a ricevere “ogni parola che esce dalla sua bocca con paura reverenza e timore, proprio come i nostri padri presso il monte Sinai” nel momento del dono della Torà. Si cominciava dunque con l’alfabeto scritto su una lavagna (un midrash racconta di rabbi Aqiva che impara le lettere grazie a un maestro che le incide su tavolette) per passare a brani della Torà e infine a interi rotoli. Secondo quanto riportato nella raccolta midrashica Wayqrà Rabbà sul Levitico era proprio il terzo libro del pentateuco, famoso per le tante prescrizioni, quello con cui si cominciava lo studio. Almeno in teoria, lo studente doveva comunque completare l’intero canone biblico e il targum, cioè la traduzione ampliata e spesso commentata in aramaico. Il metodo didattico prevalente prevedeva senza dubbio la lettura a voce alta e la ripetizione.

Fino a quale età si prolungava l’istruzione elementare? Affronta la questione un passo di Bereshit Rabbà in cui viene commentata la giovinezza dei figli di Isacco, Esaù e Giacobbe. Fino ai tredici anni secondo rabbi Pinchas i due fratelli vanno a scuola, ma è bene non ingannarsi poiché sono come un cespuglio di mirto e uno selvatico che crescono vicini: nonostante la prossimità il primo produce un profumo delizioso, l’altro spine. Così dopo il compimento del tredicesimo anno Giacobbe comincia a frequentare le accademie (batè midrashot), Esaù templi dove si pratica l’idolatria (batè avodat kochavim, alla lettera “case di adorazione delle stelle”). In ogni modo, chiosa rabbi Elazar, “un uomo deve prendersi cura dei figli fino ai tredici anni”. Raggiunta questa età, a cui corrisponde la maggiorità religiosa, il genitore recita la benedizione rituale – “Benedetto colui che mi ha esonerato dalle responsabilità di questo” – e il figlio diventa bar mitzvà, passando dalla soggezione ai genitori alla soggezione alle mitzvot. Con questo termina l’istruzione elementare: chi può e vuole prosegue gli studi nel bet midrash per apprendere le norme della tradizione orale, gli altri entrano nel mondo del lavoro. Genitori e maestri hanno fatto il loro dovere. Ora tocca agli allievi fare in modo di diventare cespugli di mirto profumato e non sterpi spinosi.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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