Cultura
Le montagne di Primo Levi

I monti rappresentano la libertà negata dal regime a tutti, e dal 1938 in modo particolarmente esplicito e doloroso agli ebrei

“Al Sestrière non s’andava mai, perché c’erano le funivie, e le funivie erano peggio del demonio! Niente giacche imbottite, niente scarpe nuove, la guida del CAI serviva solo per fare l’opposto di quanto consigliava. Anche l’attrezzatura era minima”. Siamo negli anni trenta e l’alpinismo è ancora affare di pochi, il Club alpino italiano (CAI), poi, è un’associazione controllata dal regime fascista, dunque inservibile. In montagna è allora meglio andare da soli oppure con pochi, fidati compagni, e più si fatica meglio è. Così Primo Levi racconta le escursioni su per le valli del Piemonte e della Valle d’Aosta insieme ad amici come Alberto Salmoni e soprattutto Sandro Delmastro, conosciuto sui banchi di chimica all’università. Molto tempo dopo quelle prime scalate Levi restituisce la passione per la montagna in una conversazione con Alberto Papuzzi scritta nel 1966 e pubblicata sulla “Rivista della Montagna” nel 1984, ma le montagne, come vedremo, sono soprattutto protagoniste di alcuni luoghi significativi dei suoi libri.

D’inverno si andava con gli sci, racconta Primo Levi, come quella volta da Bard a Champorcher, di notte a piedi e con zaini di trenta chili, per arrivare a un colle, scendere, risalire e procedere verso Cogne e il Gran Paradiso. D’estate si puntavano i tremila nelle valli di Susa e di Lanzo, oppure in Valle d’Aosta per arrivare ancora più in alto, dove le nuvole si vedono muovere veloci sotto i piedi. Nelle mezze stagioni, infine, ecco le palestre naturali conosciute dai torinesi che amano la montagna, dai Picchi del Pagliaio ai Denti di Cumiana, da Rocca Patanüa a quella del Plu e della Sbarua. L’alpinismo come passione di massa non esisteva ancora e l’alta montagna era territorio esclusivo di un pugno di coraggiosi e stravaganti desiderosi di temprarsi attraverso la fatica. La stessa fatica, pantaloni alla zuava indosso e pesanti scarponi ai piedi, alla quale proprio in quegli anni il professore Giuseppe Levi portava sé e i figli, come avrebbe raccontato la più piccola della famiglia, Natalia Ginzburg, nel capolavoro Lessico famigliare.

Se la ricerca della fatica in montagna, come diceva Guido Rey, può condurre a una forma di riposo ancora più forte del riposo stesso, c’è anche un’altra ragione che spinge Levi verso i suoi monti, ed è il desiderio di avventura. “La montagna per noi era anche esplorazione”, dice, “il surrogato dei viaggi che non si potevano fare alla scoperta del mondo, e di noi stessi; i viaggi raccontati nelle nostre letture: Melville, Conrad, Kipling, London. L’equivalente casalingo di quei viaggi era l’Herbetet”. Mettere alla prova i propri limiti era anche un mezzo per andare alla scoperta di sensazioni nuove che la vita urbana non poteva offrire e che la lettura dei classici romantici dell’alpinismo, come Mummery e Whymper, aveva suscitato. E poi da Torino le montagne erano lì, a portata di mano, tinteggiate di blu e di rosa nelle belle sere estive.

Lo studio della chimica corrobora la passione per la montagna e viceversa. Tra le due Levi intravede una complicità segreta, perché sui monti si ritrovano, “gli elementi del sistema periodico, incastrati tra le rocce, incapsulati tra i ghiacci”; e decifrare questi elementi permette di capire qualcosa in più della montagna, “la sua struttura, il perché della forma di un canalino, la storia dell’architettura di un seracco”. “Una volta, ai Picchi del Pagliaio, Sandro si attacca a un appiglio cristallino che però gli rimane nelle mani. Me lo fa vedere senza scomporsi, dicendomi: si sfalda, che è la terminologia delle operazioni stereografiche, poiché i cristalli si identificano dal loro modo di sfaldarsi”. Chimica e montagna si fondono in un’immagine biblica che compare nel racconto Idrogeno del Sistema periodico: “Per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’ordine in me, attorno a me e nel mondo”. Le montagne, e non solo quelle bibliche, ricorrono nelle similitudini, strumenti tanto significativi del realismo di Levi. Un altro esempio compare nella prefazione alla Ricerca delle radici, il libro dei libri di Levi, l’antologia ragionata delle sue letture preferite, quando paragona alcune scelte, come Rabelais, ad “amicizie asimmetriche e feconde” fondate non sulla somiglianza, ma sulla differenza. Alla base di queste scelte risiede non la ragione dell’intelletto ma quella del cuore di cui parlava Pascal, continua Levi, “che rispetto, che ammiro, che mi sorprende, ma intorno a cui mi sono aggirato più volte invano, come intorno a certe guglie inaccessibili delle Grigne”.

Il luogo più alto in cui Primo Levi racconta la montagna è il racconto Ferro del Sistema periodico. Qui la montagna rappresenta la libertà negata dal regime a tutti, e dal 1938 in modo particolarmente esplicito e doloroso agli ebrei. Con Sandro Delmastro si puntavano le vette più impervie forse anche perché, oscuramente, si sentiva “un bisogno di prepararsi agli eventi futuri”, cioè di temprare il corpo e l’animo, assaporando in alta quota il profumo della libertà tanto diverso dalla stantia retorica del regime. Sandro, che non molti mesi più tardi sarà tra i primi a cadere a Cuneo durante la guerra di liberazione, è l’uomo di ferro di poche parole e tanti fatti conosciuto durante le lezioni all’università. “Era un’assurda forma di ribellione”, dirà Levi a Papuzzi: “Tu fascista, mi discrimini, mi isoli, dici che sono uno che vale di meno, inferiore, ‘unterer’: ebbene, io ti dimostro che non è così. Mi ero subito promosso capocordata, senza esperienza, senza scuola: devo dire che l’imprudenza faceva parte del gioco”.

Levi è un isolato dopo le leggi con cui vengono divisi in due gruppi i cittadini italiani, non ebrei da una parte e ebrei dall’altra. Anche Sandro lo è, in modo affatto diverso, perché viene dalla Serra d’Ivrea, “terra bella ed avara”; figlio di un muratore, d’estate porta le greggi al pascolo e preferisce alla speculazione la prassi, che è innanzitutto una pratica, cioè un’etica, abito da indossare ogni giorno. “Sandro andava su roccia più d’istinto che con tecnica”, fidando nella forza delle mani callose, e la giornata non era buona “se non aveva dato fondo in qualche modo alle sue riserve di energia”. Con lui si partiva senza tante parole, che non erano il suo forte, si metteva in tasca un pezzo di pane, un coltellino, filo di ferro per le riparazioni d’emergenza, a volte la guida del CAI ma solo per rifiutarne i suggerimenti. Poi si inforcavano le bici e via, fino a dove cominciavano i sentieri, e se sentieri non ce n’era meglio ancora, ci si inerpicava per pratoni e balze di roccia.

Una volta Sandro e Primo si trovano in difficoltà. Succede quando salgono sul Dente di M. passando per una “facile cresta nord-ovest”, come dice la guida, che si riferisce però all’ascensione d’estate. Invece è inverno e i due raggiungono la cima quando sono le cinque del pomeriggio e comincia a imbrunire. “E per scendere?”, chiede Primo. “Per scendere vedremo”, risponde Sandro, “Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso”, cioè nel gergo della montagna passare la notte all’addiaccio. E va proprio così, affamati e al freddo vicino a un laghetto raggiunto dopo due ore di discesa quasi al buio su roccia, la corda gelata che si aggancia a tutti gli spuntoni. “Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”.

Come sa chiunque frequenti la montagna, capita che condizioni climatiche avverse o imprevisti mandino a monte anche le gite pianificate con maggiore attenzione. È lo spunto da cui nasce il racconto Fine settimana contenuto nel volume Lilít e altri racconti. Siamo nell’estate 1942 e Levi organizza l’ascesa al monte Disgrazia, in Valtellina, insieme a Silvio Ortona, altro abituale compagno di scalate. I due dispongono di un solo paio di ramponi, decidono quindi di procedere con un rampone soltanto a testa per compiere una lunga traversata di ghiacciaio a mezza costa. Non quella volta, però, perché vengono svegliati di notte nel piccolo hotel dove dormono a Chiesa di Val Malenco, da dove prevedono di partire zaini in spalla il mattino seguente. A interrompere il sonno è un maresciallo che mostra loro la “Gazzetta ufficiale”: agli ebrei è vietato soggiornare in località di frontiera, cioè a meno di dieci chilometri dai confini patrii, e si dà giusto il caso che Chiesa disti dal confine con la Svizzera nove chilometri e novecento metri in linea d’aria, quasi dieci insomma e tuttavia meno di dieci. Segue una esilarante scena che non riporteremo, ma che permette infine agli amici di dormire saporitamente a spese dello stato, anche se dovranno rinunciare alla gita al Disgrazia.

Le avventure con Silvio, Alberto e Sandro preparano inconsciamente, come scrive Primo Levi, “per un avvenire di ferro, di mese in mese più vicino”. Dopo l’8 settembre Levi andrà ancora in montagna, unendosi ai partigiani che operano nella zona del Col de Joux, in Valle d’Aosta. Un’esperienza che termina presto, con la cattura il 13 dicembre 1943 insieme a Vanda Maestro e Luciana Nissim. In quanto ebrei, il 20 gennaio dell’anno seguente vengono trasferiti a Fossoli e da lì ad Auschwitz, il lager edificato su una distesa pianeggiante e uniforme che è agli antipodi dell’atmosfera di libertà che Levi riconosce alla montagna. Eppure c’è un punto di Se questo è un uomo in cui la montagna compare, evocata con desiderio e nostalgia, ed è un altro exemplum, dopo quelli di Mosè sul Sinai e delle guglie inaccessibili delle Grigne. Siamo nel Canto di Ulisse, quando Levi, durante il breve tragitto da una baracca all’altra, trasportando il rancio, cerca di spiegare al compagno Pikolo chi è Dante, che cos’è la Commedia e poi il contrappasso, Virgilio, Beatrice… Ma il tempo è poco e Pikolo, che viene dall’Alsazia, non conosce la lingua italiana. Allora Levi recupera alla memoria l’ultima avventura di Ulisse, il folle volo descritto da Dante nel canto XXVI dell’Inferno. Un po’ recita e traduce in francese, un po’ parafrasa, un po’ spiega: “Lo maggior corno della fiamma antica…” E però le parole vengono meno, si aprono voragini tra le terzine; ma non c’è modo di indugiare e bisogna andare avanti, il tempo è poco nel lager; e Pikolo, che ama l’Italia e vorrebbe imparare la lingua di Dante, Pikolo è paziente: “Ça ne fait rien, vas-y tout de même”.

“… Quando mi apparve una montagna, bruna

Per la distanza e parvemi alta tanto

Che mai veduta non ne avevo alcuna”.

“Sì, sì, ‘alta tanto’, non ‘molto alta’, proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino! Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda”.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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