Cultura
Lessico famigliare di Natalia Ginzburg compie 60 anni: i segni e la memoria

Lessico famigliare è forse più conosciuto che letto, più letto dai lettori comuni che fatto leggere nelle scuole e più letto nelle scuole che apprezzato dalla critica. Ma quale è il posto dell’ebraismo in questo libro straordinario?

Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone.

Lessico famigliare compie sessant’anni ed è vivo e fresco come non mai. Racconta la storia della famiglia dell’autrice Natalia Ginzburg (Levi all’anagrafe) a Torino tra gli anni venti e gli anni cinquanta. Al centro della scena i genitori Lidia Tanzi e Giuseppe Levi, celebre scienziato, circondati dai cinque figli – Natalia è l’ultima – da numerosi conoscenti e amici. Ginzburg è autrice di numerosi libri, apprezzati soprattutto da un pubblico femminile, ma questo conserva un posto speciale nella sua opera. Un libro che non lascia indifferenti, le cui frasi rimangono appiccicate al lettore, che lo voglia o no, come le mosche alla carta moschicida, un libro che dopo essere stato chiuso rimane per la vita sul comodino ideale, pronto a essere riaperto e riscoperto più e più volte, caso rarissimo di romanzo miscellanea non solo da leggere ma anche da consultare. Interamente soggiogato, il lettore ne ingloba le parole nel proprio personale lessico, finisce per usarle nelle circostanze di ogni giorno. Eppure Lessico famigliare è forse più conosciuto che letto, più letto dai lettori comuni che fatto leggere nelle scuole e più letto nelle scuole che apprezzato dalla critica. Quale è il posto dell’ebraismo in questo libro straordinario?

L’ebraismo nascosto

I protagonisti del romanzo sono per la maggior parte ebrei ma di ebraismo si parla pochissimo. Uno dei pochi punti in cui compare è nel ritratto della nonna paterna Emma Perugia, di cui si dice che prova nei confronti della madre di Natalia, che ebrea non è, “un ribrezzo, come per i gatti”. Come è stato fatto notare, il ritratto feroce della nonna ribalta apertamente il senso della persecuzione con cui gli ebrei italiani saranno colpiti prima dalle leggi razziste del 1938 e poi dalle deportazioni. Mentre l’antisemitismo fascista e la Shoah vengono appena accennati, pur sconvolgendo le vite dei protagonisti, è paradossalmente proprio la nonna l’unica a venire descritta come intollerante, una ebrea intollerante nei confronti dei non ebrei. Questo da una parte spiega una certa freddezza da parte ebraica nei confronti di Ginzburg, dall’altra spinge a interrogarsi sulle scelte dell’autrice.

Qualcuno potrebbe suggerire che il romanzo è stato scritto di getto, in breve tempo e per ammissione della stessa autrice “in stato di assoluta libertà”. Questo non solo non spiega, ma depista perché Lessico famigliare, nonostante le apparenze, si regge su una precisa architettura che lascia poco o nulla al caso. La sensazione che si tratti di una serie di ricordi affastellati è appunto una sensazione suscitata ad arte dalla scrittrice. Non è la premessa ma il risultato di una fine architettura. Se si guardano gli originali manoscritti – Natalia Ginzburg scrive sempre e soltanto a mano incidendo in profondità, quasi scavando il foglio con la biro – ci si rende conto che ogni frase e gruppo di frasi viene scritto molte volte prima di ottenere una versione considerata accettabile, come se l’autrice andasse alla ricerca di un ritmo, di una musicalità. Se Ginzburg in Lessico famigliare e altrove dice di mancare totalmente di orecchio musicale, certo non è vero per la musica del testo.

Sgombrato il campo da fraintendimenti, possiamo individuare tre motivazioni principali del nascondimento dell’ebraismo nel romanzo. Innanzitutto la scrittrice nasconde sé stessa. Come chiarisce fin dall’Avvertenzaa nteposta al testo, “non avevo molta voglia di parlare di me. Questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia”. Non solo ai genitori ma anche a ciascuno dei fratelli e a molti degli amici viene lasciato uno spazio maggiore di quello che Natalia prende per sé. La narratrice scompare, diventa occhio che registra. Si ritrae, si cela per meglio osservare con una tecnica impiegata fin da Platone che nel Fedone, descrivendo con meravigliosa partecipazione l’ultimo giorno di vita di Socrate in compagnia dei discepoli dice di sé stesso che “quel giorno era assente”. Un secondo motivo della programmatica subordinazione dell’ebraismo in Lessico famigliare chiama in causa la politica e l’ideologia.

Intellettuale impegnata in nome degli ideali comunisti, Ginzburg nel 1963 descrive una famiglia qualunque che parla un linguaggio qualunque. Nella realtà la sua famiglia non è affatto qualunque ma anzi molto speciale: parenti e amici sono ebrei antifascisti militanti che anche nel momento di massimo consenso non si piegano al regime e pagano con la prigione e talvolta con la vita – per esempio Renzo Giua morto da volontario antifranchista durante la guerra civile spagnola, Leone Ginzburg torturato e ucciso dai nazifascisti nel 1944, Tullio Terni suicida nel 1946 dopo essere stato epurato dall’Accademia dei Lincei nell’immediato dopoguerra per supposta connivenza con il regime fascista. L’ideologia comunista porta l’autrice a mettere in primo piano ciò che è comune rendendo quella famiglia lì non più speciale di qualsiasi altra famiglia, in secondo piano invece ciò che la rende peculiare e unica. Il terzo motivo dell’assenza è l’idea di ebraismo dell’autrice. Per Ginzburg essere ebrei è un elemento che non ha bisogno di essere messo in rilievo. Semplicemente c’è come cosa vissuta e saputa. Anche l’antifascismo a casa Levi è un atteggiamento normale come respirare, un dato naturale, quasi paesaggistico. L’antifascismo però torna continuamente nel libro, a differenza dell’ebraismo. Un antifascismo innanzitutto esistenziale da inquadrare anch’esso nell’ottica comunista della scrittrice. Anche in riferimento all’ebraismo nascosto va applicata la definizione di Cesare Garboli, secondo cui Lessico famigliare è “un libro di furente e censurato protagonismo”. L’autrice, vuoi per ritrosia vuoi per ideologia, rimuove con metodo e accuratezza quasi ogni traccia, si defila, esce o quasi di scena per impossessarsi saldamente della regia.

Sepolcri etruschi, geroglifici egiziani

Alcune somiglianze singolari avvicinano Lessico famigliare al Giardino dei Finzi-Contini, altro libro di memoria ebraica italiana pubblicato nel 1962, cioè soltanto pochi mesi prima. Anche nel romanzo di Bassani abbiamo una lingua tutta particolare, il continico parlato dai due fratelli Micol e Alberto. Mentre però quella dei Finzi-Contini è una lingua cifrata, morta e compiutamente autoreferenziale, il lessico di casa Levi è vivo, aggressivo, in perpetua tumultuosa trasformazione. Entrambi però sono libri di segni, e segni ebraici per giunta. La differenza non rimane confinata ai due linguaggi, ma si estende ai personaggi. I Finzi-Contini sono i morti, gli estinti, gli infecondi, rami secchi dell’albero della vita che sanno perfettamente di essere secchi e anzi ne godono. Non sono meno morti degli etruschi evocati nelle prime pagine, che annunciano l’atmosfera sepolcrale autentica cifra del libro di Bassani. Sono allo stesso tempo ebrei, molto più profondamente di quanto indichi la loro scarsa osservanza, caratteristica peraltro comune all’epoca alla stragrande maggioranza degli ebrei italiani. Sono i diversi. Bassani è autore di un canto di morte che chiama la morte, di una terribile e soggiogante estetica cimiteriale. Il giardino dei Finzi-Contini è un ossario di sepolti vivi cinto da un muro, un santuario irraggiungibile per tutti incluso il narratore perché appartiene a un mondo altro rispetto a quello della vita.

In Lessico famigliare al contrario vediamo ebrei comuni in atteggiamenti quotidiani che non hanno proprio nulla di speciale. Come abbiamo già visto, anche se quasi tutti i personaggi del libro sono ebrei, ed ebrei realmente vissuti indicati con il nome (solo talvolta anche con il cognome, che rappresenta già un indicatore forte di provenienza), questo non viene menzionato tranne in pochi casi come quello paradossale della nonna. I Finzi-Contini sono inavvicinabili – come i morti – i Levi costituiscono invece una famiglia qualunque con il suo linguaggio qualunque, non migliore o più geniale di quello che si può trovare ovunque altrove.

Così continua il brano di Lessico famigliare che abbiamo citato in apertura: “Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo”. Sepolcri etruschi da una parte, geroglifici egiziani dall’altra.

I segni e la memoria

Caratterizzano Lessico famigliare lo stile dimesso, il procedere come flusso di coscienza continuo, l’apparente casualità dove tutto in realtà è ipercontrollato, il linguaggio quotidiano ricco di calchi dal dialetto e costruzioni tipiche dell’oralità lontanissime dalla lingua letteraria e oscura che Ginzburg detestava perché lingua dell’inganno da Azzeccagarbugli a D’Annunzio. È plausibile pensare anche a questo livello formale all’influenza dell’ideologia comunista, a fianco di modelli che pure letterari sono come l’amatissimo Proust che la scrittrice ha anche tradotto. I ricordi che affastellati gli uni agli altri costituiscono il romanzo sono quelli di una bambina e una giovane donna, non quelli della scrittrice adulta che guarda dietro di sé. Nessuna voce fuori campo dunque, nessuna considerazione universale, nessun moralismo. A questo proposito Cesare Segre ha sottolineato il tono fiabesco del racconto. Come ogni fiaba, il tempo verbale impiegato è l’imperfetto, tempo del “c’era una volta” e del moto ondoso ripetitivo ma mai esattamente identico della memoria. È poi il lessico, vera e propria trama dialogica attraverso la quale si snoda la storia, a costituire l’oggetto vivo e parlante del romanzo. Sbrodeghezzi, potacci, sempi, baslettone e così via. “Quelle frasi”, continua il brano di cui abbiamo citato le prime due porzioni, “sono il fondamento della nostra unità famigliare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà ‘Egregio signor Lipmann’ e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: ‘Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!’ ”. Come chiarisce Domenico Scarpa, in Lessico famigliare “la storia è quello che le parole fanno accadere”.

La vita in presa diretta è memoria della vita in presa diretta. Memoria, immaginazione, parola evocativa ed efficace. La memoria passa attraverso frasi chiavistello che – motivo proustiano – evocano situazioni e aprono alla condivisione di esperienze. Genitori, fratelli e amici protagonisti di Lessico famigliare sono una serie di tic, fissazioni, espressioni gergali e frasi ripetute. Sono questo e nient’altro. Fuori di ciò rimane qualcosa alla memoria? La risposta di Natalia Ginzburg è radicale. No. Con l’espressione latina collocata dal semiologo Umberto Eco in conclusione al suo romanzo Il nome della Rosa, da cui deriva lo stesso titolo, stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, “la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo solo nomi nudi”. Tra le rovine di un’antica abbazia – e ovunque altrove – i segni sono forse poca cosa, ma sono tutto ciò che resta. Anche se come abbiamo visto rimandano a realtà differenti, i sepolcri etruschi di Bassani e i geroglifici egiziani di Ginzburg sono segni. Non sono la vita in divenire per il semplice fatto che questa mentre diviene è già passata, andata per sempre. La memoria che permette di leggere i segni, di attribuire loro significati, è già tantissimo. “La memoria è labile”, sono le parole con cui la scrittrice chiude l’Avvertenza preliminare, e “i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito”.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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