Hebraica Nizozot/Scintille
L’uscita di Israele dall’Egitto e la libertà

Proposte di lettura della Haggadah di Pesach

La festa ebraica di Pesach celebra la liberazione dei figli e delle figlie di Israele narrata come l’intervento divino per farli uscire “dalla terra d’Egitto, da una casa di schiavi[tù]”. Nessuna fonte presenta questa ‘uscita’ come una fuga e, a ben vedere, neppure come un ritorno (la mèta è una terra, promessa per giuramento, che dovrà essere conquistata). Tuttavia si tratta di una vera e propria redenzione, e il liberatore/redentore è soltanto Qadosh Barukh Hu, Iddio benedetto, sebbene nel processo si sia avvalso dell’aiuto di tre leviti: Miriam, Mosè e Aronne.

L’Haggadà di Pesach è un collage di testi midrashici e poetici e di rituali che fungono da canovaccio canonico per la celebrazione, in famiglia, di questa memoria e per la sua annuale riattualizzazione. Dunque è un memoriale, più che un semplice ricordo; un modello pedagogico, non solo una festa religiosa; un paradigma identitario intergenerazionale, ben più che una mera esegesi del libro di Shemot/Esodo. E come tutti i paradigmi identitari, deve costruire la consapevolezza di un ‘noi’ e di un ‘adesso’ sullo sfondo di un ‘loro’ e di un ‘prima’; deve marcare una contrapposizione e una discontinuità; deve elaborare su un passato traumatico per costruire un presente e un futuro migliori.

L’Egitto, sia nel secondo libro della Torà sia nel collage-canovaccio dell’Haggadà, serve a tale scopo simbolico: rimarcare il negativo da cui ci si allontana; stigmatizzare il modello idolatra, immorale e violento da cui prendere le distanze, e che si vuole soprattutto estirpare da se stessi; catalizzare il male e la sofferenza subìta. L’etimo (popolare) di Mitzraim – Egitto in ebraico – sarebbe appunto ‘ristrettezze’, ‘patimenti’. Non si tratta dunque dell’Egitto della storia, o almeno: la storia dell’Egitto è cosa assai più vasta e complessa; piuttosto si tratta di un Egitto mitizzato, del simbolo dell’Egitto, che entra a far parte del gran racconto che sta alla base della nascita di Israele. Più duro è il soggiorno in Egitto, più forte è il desiderio di libertà e più intensa sarà la gratitudine per Chi ha posto fine a quella terribile schiavitù.
E tuttavia nel primo libro della Torà, in Bereshit/Genesi, questo mito negativo dell’Egitto non c’è; anzi, pur tra vicissitudini strane, Abramo e sua moglie Sara vi trovano rifugio in un momento difficile; vero è che Isacco è comandato di non scendere in Egitto (e andare invece tra i filistei) ma non si dice che l’Egitto sarebbe stato per lui pericoloso; invece in Egitto finiscono prima Giuseppe, venduto dai suoi fratelli, e poi quegli stessi fratelli, e infine anche il patriarca Giacobbe/Israele, rassicurato dal Signore: “Non temere di scendere in Egitto, perché colà farò di te una grande nazione…”. Faraone in persona, di cui Giuseppe diventa gran visir, è descritto come un re accogliente e generoso verso tutta l’estesa famiglia di Giacobbe. Insomma l’Egitto di Bereshit non è l’Egitto di Shemot, e neppure l’Egitto di Deverim/Deuteronomio (testo che a sua volta fa da base esegetica alla storia di Pesach), dove faraone ed egiziani sono descritti come schiavisti e oppressori. Il midrash poi – ripreso dalle illustrazioni di alcune antiche haggadot – rincara la dose quando afferma che il faraone, colpito da una piaga, faceva il bagno (nudo ma con la corona in testa) in un mastello pieno del sangue di bambini ebrei, perché credeva che tale sangue lo avrebbe guarito… Una volta rav Luciano Meir Caro ha connesso questa leggenda, che nella Torà non c’è, all’interpretazione di Shemot/Es 2,23 allorché si dice che, alla morte di faraone, i figli di Israele piansero dal mezzo della loro corvée forzata! “Ci si domanda: ma come? Muore il persecutore e i perseguitati si mettono a piangere? I maestri spiegano con questa teoria: la morte del ‘re dell’Egitto’ non si riferisce alla morte fisica del sovrano egiziano, ma al fatto che essendo stato colpito da lebbra o malattia simile è come se fosse morto. Gli ebrei piansero perché i medici-stregoni gli avevano ordinato, se voleva guarire, di immergersi nel sangue dei bambini ebrei; piansero perché la malattia del re dell’Egitto significava per loro nuove, terribili sofferenze”.

La tradizione rabbinica ha ben percepito che esiste una certa ambivalenza attorno all’Egitto, quasi fosse sospeso tra realtà e mito, tra storia e fede, un’ambivalenza che spinge qualcuno a pensare che la decima piaga, makkat bekorot ossia la morte dei primogeniti ‘egiziani’ (umani e animali), inflitta direttamente da Qadosh Barukh Hu (e non da Mosè o Aronne), fosse eccessiva non essendo giusto che le colpe dei padri fossero fatte pagare ai loro figli… In tal senso, come atto di solidarietà con eventuali vittime innocenti (i figli primogeniti) di colpe altrui (di faraone in veste di ‘padre’ di tutto l’Egitto), è stato spiegato dai rabbini il digiuno da mattina a sera cui sono tenuti i primogeniti ebrei il 14 del mese di Nissan, ossia il giorno che precede l’inizio di Pesach. Tale digiuno, afferma rav Elia Artom zl, è “in ricordo della morte dei primogeniti d’Egitto, e se cade di shabbat si anticipa di giovedì”. Altro segno di ambivalenza è il trattamento riservato dalle fonti ebraiche alla principessa egiziana presentata come ‘figlia di faraone’ e nota con il nome di Bitya e/o Thermutis, la quale, per il suo atto di sincera compassione con cui salvò il neonato Mosè dalle acque del Nilo, meritò secondo un’antica tradizione di entrare viva nel Gan Eden (una specie di ‘assunzione’ mariana in versione ebraica). Solo folklore narrativo, si dirà; forse, ma qui si intravede la volontà di ‘non fare di tutto l’Egitto un fascio’, di distingure cioè le responsabilità, i crimini dai meriti. Salvando Mosè, è come se Batya avesse salvato tutto Israele! Questa storia entrò anche nella tradizione islamica, trasformando il ruolo della donna chiamata Asiya da figlia a moglie del faraone.

Non meno significativo è un altro midrash che riflette sull’attraversamento del mare dei giunchi, allorché, dopo il passaggio degli israeliti, le acque si richiusero all’arrivo del faraone e del suo esercito, travolgendo ‘cavallo e cavaliere’. La fantasia rabbinica ha immaginato che, appena i discendenti di Giacobbe furono all’asciutto dall’altra parte del mare, gli angeli in cielo intonarono un canto di lode per la salvezza di Israele. Al che Qadosh Barukh Hu avrebbe esclamato: “Come osate cantare mentre una parte della mia creazione [gli egiziani] stanno affogando in mare?”. Ciò risuona in sintonia con l’insegnamento di rabbi Yochanan, riportato nel Talmud Babilonese, Meghillà 10b ma anche Sanhedrin 39b: “Il Signore benedetto non gioisce alla caduta dei malvagi”, seguito proprio dal rimprovero divino agli angeli del servizio, che volevano intonare una cantica di gioia davanti agli egiziani che stavano annegando. L’ambivalenza, anzi l’ambiguità qui sta nel fatto che, secondo altre fonti rabbiniche, quel divieto di cantare fu imposto agli angeli prima che Israele entrasse nel mare e dunque si riferisce alle angustie degli ebrei, non a quelle dell’esercito egiziano che lo stava inseguendo! Non siamo chiamati a scegliere tra le due versioni, ma a constatare che la tradizione rabbinica invita alla solidarietà con chi soffre, chiunque sia.
Se il midrash non fosse in merito abbastanza autorevole, anche l’halakhà circa la tefillà (preghiera) di Pesach ci illumina in tal senso: il canto dell’Hallel completo si recita solo il primo giorno, non gli altri giorni, proprio perché nel settimo giorno gli egiziani perirono in mare. Così spiega la Pesiqtà di rav Kahana e la Yalchut Shimoni. Invece Yeshayahu Leibowitz, al solito controcorrente, dà un’altra risposta al fatto che proprio a Pesach non si reciti ogni giorno l’Hallel completo. A suo giudizio, ciò che chiamiamo chag cherutenu, ossia ‘festa della nostra libertà’, è solo un inizio: quella esperita a Pesach potremmo definirla una ‘mezza libertà’ perché si dà libertà piena solo quando c’è la Torà, la quale verrà data solo in seguito all’uscita dall’Egitto. “Il significato principale dell’uscita dall’Egitto non consiste nella mera liberazione dalla schiavitù dell’Egitto” dove molti non si trovavano affatto male, potremmo chiosare, facendo eco alle mormorazioni e lamentazioni nel deserto; il significato profondo di Pesach, conclude Leibowitz, “consiste nella preparazione e nell’addestramento ad accogliere il giogo della Torà e dei precetti, perché in essi sta la vera libertà dell’uomo”.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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