Cultura
“Maestro”, la storia di Leonard Bernstein e Felicia Montealegre in un film

La recensione del biopic di Bradley Cooper

Ho appena visto “Maestro”, il biopic incentrato sulla relazione tra Leonard Bernstein e Felicia Montealegre interpretati rispettivamente – in modo magistrale – da Bradley Cooper, che ha anche diretto il film e lo ha scritto insieme a Josh Singer, e Carey Mulligan.
Sul discorso del naso posticcio usato dall’attore si sono spese molte parole, ma in realtà c’è poco da dire. Il trucco adottato da Cooper, che gli è valso accuse di aver tentato di emulare un naso ebraico o addirittura una “jewish face”, ha ricevuto perfino la benedizione dei figli di Bernstein che lo hanno trovato naturale e che hanno affermato che anche loro padre lo avrebbe considerato tale. Fine della storia.
Tanto più che nessuno ha avuto da ridire allo stesso modo quando Nicole Kidman ha utilizzato una protesi nasale – assai brutta – per interpretare Virginia Woolf in “ The Hours” o il viso di Helen Mirren è stato praticamente soffocato e reso inespressivo dal silicone in “Golda”. Casomai si potrebbe osservare che il film, naso a parte, insiste poco sull’ebraismo di Bernstein, che invece era una componente molto forte della sua identità. Chissà che cosa avrebbe fatto Steven Spielberg, per anni ritenuto il possibile regista di questa produzione?

Nato nel 1918 e cresciuto in Massachussets in una famiglia ortodossa di immigrati russi, Lenny iniziò a suonare l’organo da bambino proprio in sinagoga prima di passare al pianoforte e in seguito venire accettato nel 1940 alla classe di direzione di Serge Koussevitzky, che divenne poi il suo mentore (gli aveva proposto di cambiare il cognome in Burns perché risultasse meno ebraico, ma lui rifiutò). Questa esperienza lo condusse poi alla New York Philarmonic dove lavorò per moltissimi anni.

Il legame con l’ebraismo è evidente in tutta la sua vastissima creazione e, nello specifico, in opere ispirate a materiale biblico come Kaddish, dedicato al presidente Kennedy da poco assassinato, Chichester Psalms o anche la sua prima sinfonia Jeremiah che ha per sottotitolo “una canzone ebraica”, dove risuonano le melodie cantate per l’Haftarah il sabato mattina. E la stessa apertura di West Side Story riecheggia il suono dello shofar, per non parlare del soggetto stesso, dove nella lotta tra comunità bianca e latina è evidente l’opposizione culturale tra ebrei e cattolici. Sia Felicia che Leonard erano attivisti e Bernstein vedeva nella musica uno strumento per trasmettere l’idea della pace, della giustizia e della libertà: cosa c’è di più ebraico?

Nel film invece l’influenza religiosa e culturale è messa in secondo piano rispetto a una totale assimilazione nella cultura Wasp americana (a parte un momento in cui Leonard sfoggia una maglietta con la scritta Harvard in ebraico). Il senso della pellicola di Cooper è tutto concentrato nella tensione dell’uomo Leonard che cerca di conciliare le tante facce pubbliche e private della sua straripante personalità, pervaso com’è da un amore per la vita e per gli altri (soprattutto uomini) che gli rende difficile essere un’unica cosa. Vedeva se stesso più che altro come organismo complesso, ibrido, fatto da tanti pezzi. Compositore, direttore, insegnante, intellettuale, in bilico tra il mondo privato e interiore della scrittura musicale e quello pubblico ed esteriore da bohémien e dandy dei salotti, apertamente bisessuale. Se il film cerca di raccontare tutte queste parti, queste contraddizioni, si ha comunque l’impressione che tanti aspetti dell’esuberante identità poliedrica dell’artista siano stati trascurati; e anche la relazione tra marito e moglie – dove il personaggio di Felicia emerge e quasi domina la narrazione – è risolta in modo un po’ rigido: da compagna di giochi e passioni platoniche a moglie infelice a eroina vittima del cancro, senza approfondire altre sfumature e passaggi umani che avrebbero giovato all’evoluzione del personaggio femminile.

Ma è soprattutto la musica che viene messa in secondo piano rispetto alla storia d’amore, a parte nella scena iniziale in cui Bernstein ottiene il primo incarico ufficiale dopo aver sostituito il direttore d’orchestra Bruno Walter alla Town Hall (ma la sua “prova” viene tagliata, mostrandoci solo il momento degli applausi) e la scena magistrale in cui dirige la seconda sinfonia di Mahler alla Ely Cathedral. Come non viene citata se non marginalmente proprio West Side Story, la sua opera più politica e famosa.

In ogni caso il film ha dei meriti, accende curiosità e interesse per questo straordinario “uomo di musica”, passato come una meteora nel Novecento, morto il 14 ottobre 1990.
E in questo senso vale la pena vederlo per ringraziarlo e rendergli un doveroso omaggio, se non per riscoprirne la complessità dell’opera.

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

1 Commento:

  1. Ho visto il film Maestro a Venezia Lido durante la Mostra del Cinema dove vado ogni anno. Premetto che sono un fan di Bradley, il film è molto bello, ben girato con il soggetto importante che evidenzia la vita di questo grande artista, ai più sconosciuto e questo è anche un altro merito che va riconosciuto.


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