Cultura
Maria Saleh Mahameed: il mondo delle donne disegnato a carboncino

Intervista alla vincitrice del premio come miglior artista israeliano emergente dal Tel Aviv Museum of Art

Quest’anno il Tel Aviv Museum of Art ha attribuito il premio, sia come migliore artista israeliano affermato, sia come migliore artista israeliano emergente, a due artiste donne e, soprattutto, arabe. In primo premio è andato ad Hanan Abu-Hussein, mentre la nuova promessa dell’arte contemporanea israeliana è Maria Saleh Mahameed, classe 1990, che si è fatta strada negli ultimi anni tra le più prestigiose gallerie e istituzioni israeliane: da Artport, a Tel Aviv, al Museo di arte contemporanea di Herzliya, dal Museo d’arte Mishkan di Ein Harod, alla Umm el-Fahem Gallery.
Maria stessa, come molti altri artisti arabo-israeliani, è originaria di Umm el-Fahem.
Ma le radici di Maria sono assai complesse, come si evince dal suo nome e dal suo cognome. Figlia di madre ucraina (cristiana) e di padre arabo israeliano (musulmano), che si sono conosciuti durante gli studi del padre a Kiev, Saleh Mahameed incarna questa complessa identità in termini di nazionalità e religione.

Oggi vive e lavora a Ein Mahel – il villaggio di suo marito, a pochi chilometri da Nazareth – dove lo studio si trova al piano superiore di dove abita, in attesa di trovare uno spazio più grande dove vorrebbe un giorno istituire un vero e proprio centro culturale dove poter svolgere workshop e ospitare altri artisti per art-residence temporanee, in modo da restituire l’esperienza che ha vissuto a sua volta durante l’art-residence presso Artport, a Tel Aviv.

Pur lavorando su scale estremamente ampie, riesce a creare narrazioni intime affrontando questioni personali, sociali e politiche riguardanti, prima di tutto, la società palestinese.
Quanto le origini della tua famiglia hanno influenzato il tuo percorso artistico?
Sono cresciuta in una casa in cui l’arte, in senso lato, dall’arte visuale alla letteratura, sia quella araba che quella sovietica, si respirava in ogni angolo. Quando ero piccola, con mia madre, tornavamo spesso a Kiev, e lì ho scoperto i primi musei, i primi teatri, i primi balletti.
Questo, fin da quando ero piccola, mi ha portato ad esplorare l’universo dell’arte fino alla decisione di iscrivermi all’Università per studiare grafica. Durante i primi progetti, facevo sempre tutto a mano, e tutti i professori mi dicevano che stavo sbagliando mestiere, che dovevo fare l’artista e non la grafica. Alla fine, mi sono iscritta all’Oranim Academic College, dove ha conseguito sia un diploma che un master in arte figurativa.
Fin da subito il mio lavoro ha s fatto riferimento alla complessità della mia identità, sia in termini di nazionalità che di religione, cercando di riflettere su il mondo che mi circonda.
La mia arte, infatti, è influenzata sia dagli eventi personali e familiari, sia dalla politica, così come dalla vita quotidiana e dalla società in cui vivo, cercando di esplorare anche temi dalla portata universale, come il mondo della vita e della morte.

Quale media è diventato il tuo strumento privilegiato per esprimerti?
Nonostante spesso usi anche altri colori, amo utilizzare soprattutto il carboncino nero perché si presta a qualsiasi cosa: dai disegni architettonici, agli schizzi e agli scarabocchi, e fornisce una modalità espressiva intima, sensibile, a tratti infantile, grazie soprattutto al contatto diretto delle dita con la tela e al pavimento su cui mi appoggio per disegnare, navigando su di esso quasi come se fosse una performance, stendendomi sulla tela e scavando in essa in modo da fondermi con essa e annullare ogni distinzione tra me e l’opera.
La scelta dell’uso del carboncino permette di lasciare un segno in modo diretto, viscerale, utilizzando materiali che vengono dallo stesso luogo in cui sono nata. Il carboncino, infatti, in Israele viene spesso estratto dalla mia città natale, Umm el-Fahem, che letteralmente significa “madre del carbone”. Le origini della cittadina infatti erano proprio legate alla produzione e al comercio del carbone.

Come avviene invece il tuo processo creativo?
Ho bisogno di superfici molto grandi su cui lavorare, talvolta utilizzando anche il salotto di casa, dove interagisco assieme ai miei due bambini (una di due anni e uno di sei mesi) pur di non smettere mai di disegnare, perché questo è il mio modo di esprimermi.
È un processo che avviene in modo intuitivo, senza schizzi preliminari, cercando ogni volta di mettermi in discussione, sperimentare, talvolta fallire fino a trovare la strada giusta che scopro solo lungo il percorso, nel risultato finale, quando l’opera viene appesa in un museo.
Le mie opere e i loro soggetti derivavano tutti dall’influenza di eventi importanti della mia vita: dalla donazione di una parte del midollo osseo a un bambino anonimo, a un grave incidente stradale dopo il quale ho conosciuto mio marito; dal mio matrimonio alle mie due gravidanze. Il tema della vita e della morte, della guerra e della pace, della doppia identità, sono temi ridondanti in tutti i miei lavori.

Puoi definire la tua arte una forma di atto politico?
Sicuramente, ma ci sono molti modi di fare e di sperimentare la politica, tutti i giorni, anche solo quando guido per l’autostrada n. 6 e vedo, lungo il tragitto, il Muro di separazione.
Ma non amo mai essere definita o etichettata come artista “araba”, non solo perché non rispecchia in pieno la mia identità multipla, ma anche perché sono al tempo stesso anche una donna e una madre, con tutte le problematiche che questo comporta, soprattutto all’interno della società araba: una società afflitta, oltre che dai problemi esterni con Israele, anche con quelli interni, come quello della criminalità, che spesso racconto nei miei lavori, una sorta di percorso attraverso la mia memoria, che si trasforma in una mappa della memoria.

Come in una vera mappa, anche le sue mani e le sue impronte, appaiono ripetutamente sulla tela che funge da supporto dei suoi lavori. Le macchie sul carboncino manifestano il suo corpo e i suoi movimenti durante l’atto del disegno, come una sorta di autoritratto in studio, mischiato alle impronte dei suoi figli e dei suoi gatti.
Nelle sue opere, Saleh Mahameed quasi antropomorfizza gli oggetti, come il camion che si è schiantato contro la sua auto, accanto al recinto di demarcazione del traffico ormai rotto, mentre l’artista viene condotta lontano dal luogo dell’incidente, sorretta da due figure maschili.
L’immagine ricorda le rappresentazioni iconiche del Nuovo Testamento di Gesù che viene deposto dalla Croce, solo che in questo caso è Maria – sia la Maria artista che la Madonna, come topos artistico – a sopportare e testimoniare, con il proprio corpo, le gioie e i dolori della vita.

Parte dei suoi lavori sono in mostra al MAXXI di Roma per la collettiva di arte contemporanea israeliana Conscious Collective.  Fino al 3 giugno

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


1 Commento:

  1. Molto molto interessanti ambedue le figure delle artiste, soprattutto per le loro personalità, libere e autentiche nel loro essere “di confine” , mi sembra in modo profondo nel loro vivere la difficile realtà in Israele.


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