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L’artista della fuga, ovvero il filosofo del conflitto interno d’Israele

Gli israeliani sono in trappola: la maggioranza crede che l’occupazione non possa continuare, ma anche che non possa finire. E se lo scrittore e filosofo Micah Goodman avesse finalmente trovato una via d’uscita?

Quello appena trascorso è stato un anno particolare per Micah Goodman. Era come se ogni singola persona in Israele si fosse messa a leggere il suo nuovo libro, Catch-67. Goodman è tutto fuorché un egomaniaco: semmai, è fin troppo modesto. Ma Israele è un Paese piccolo e il suo libro è rimasto in testa alla classifica dei bestseller di saggistica più venduti per l’intero anno.

Goodman ha scritto Catch-67  [Comma 67] con l’intento di avviare un dibattito nazionale e ci è riuscito. Le tre élite di Israele – politica, militare e mediatica – l’hanno divorato. E lui lo sa perché ha discusso del libro quasi con tutti loro.

All’età di 44 anni Goodman è diventato se non il principale intellettuale pubblico in Israele, quello quasi onnipresente. È professore, storico, intellettuale e filosofo. Ha scritto altri due bestseller che rivisitano testi della tradizione ebraica. Dà conferenze in ebraico e in inglese sulla teologia, la storia e l’etica ebraiche. (Potete trovarne a volontà su YouTube). Ma Catch-67, ora disponibile in inglese, è diverso, non parla di Herzl o di Maimonide. Parla di politica, che in Israele vuol dire una sola cosa: il conflitto israelo-palestinese.

Ho incontrato Goodman a Gerusalemme e la prima cosa che mi ha detto è stata che il suo non voleva essere un libro sul conflitto. Voleva essere un libro sul dibattito intorno al conflitto. L’intenzione era sottoporre la mentalità israeliana a una risonanza magnetica, creare una mappa dei circuiti storici e filosofici che strutturano le percezioni collettive e danno forma alle odierne scelte politiche. Il suo parere è che il dibattito politico israeliano sia bloccato, così come in molti altri Paesi. Israele si è divisa in tribù che si danno battaglia e il discorso odierno “più che uno scambio di idee, è un’affermazione di identità”.

Così Goodman vede la struttura di base: la sinistra israeliana, o ciò che di essa rimane, denuncia uno status quo insostenibile. Se Israele non riuscirà a trovare il modo di porre fine all’occupazione e ritirarsi dalla Cisgiordania, lo Stato ebraico non sopravviverà all’inevitabile crisi demografica, per non parlare dell’immoralità di dominare una popolazione di non cittadini senza diritti. La destra invece pensa che solo tenendo ben stretti i Territori, Israele possa garantire la propria sicurezza e difendere i propri cittadini da un Medio Oriente sempre più caotico e violento.

E in Catch-67, esprime l’opinione profondamente impopolare che entrambe le parti abbiano ragione:

Se questo dibattito fosse razionale e non ideologico, le parti riconoscerebbero entrambi i pericoli, ma sarebbero in disaccordo sulla loro entità. Il discorso politico israeliano, tuttavia, non funziona così. Al contrario, ciascuna parte evidenzia un pericolo e allo stesso tempo nega del tutto l’altro. […] La destra ha ragione nel dire che il ritiro dai Territori metterebbe Israele in pericolo; la sinistra ha ragione nel dire che una presenza continuata nei Territori metterebbe Israele in pericolo. Il problema è che siccome tutti hanno ragione, tutti hanno anche torto, e lo Stato di Israele è stretto in un’impossibile morsa.

“Se sei in disaccordo con me non è perché stai sbagliando”, dice Goodman, facendo il verso all’attitudine israeliana di oggi, “È perché in te c’è qualcosa di sbagliato”. Suona familiare. Siamo a Rehavia, in un coworking space che Goodman usa spesso quando è a Gerusalemme. Prepara un caffè e ci sediamo a parlare. A un primo sguardo, lo si direbbe il solito israeliano: capelli rasati, una piccola kippah che sta su Dio solo sa come, una polo a strisce sbottonata e sformata. Ma il suo entusiasmo quasi infantile per le idee e le discussioni è sorprendente. Il suo calore e la sua disponibilità lo rendono un predicatore affascinante di idee a volte difficili. Malgrado la sua levatura intellettuale, continua a farmi pensare, più che a un professore universitario, a un giovane predicatore evangelico che si entusiasma a diffondere la buona novella, anche quando la buona novella è cattiva.

Ridurre, non risolvere

Goodman è evasivo sulle sue proprie opinioni politiche. Ha insegnato all’Università Ebraica di Gerusalemme ed è affiliato allo Shalom Hartman Institute, di orientamento centrista, ma è anche religioso e ha fondato Ein Prat, un beit midrash pluralista in Cisgiordania. Quel che è evidente è che detesta le rigidità ideologiche. Eylon Levi, il giornalista israeliano che ha tradotto Catch-67 in inglese, ha definito Goodman “anti-ideologico. È il filosofo ufficiale del centro radicale”. Un luogo solitario, di questi tempi.

“Mi piace considerarmi ispirato dal Talmud”, spiega Goodman. “Il Talmud è probabilmente il primo e l’unico testo in tutte le culture che abbia canonizzato il disaccordo. I Romani canonizzarono la legge; forse all’inizio ci furono divergenze di veduta, ma alla fine, si decise che quella era la legge e quella fu canonizzata. Gli Ebrei non canonizzarono la legge, bensì il disaccordo sulla legge, trasformandolo in qualcosa di sacro”.

Goodman ammette con un largo sorriso che gli israeliani di oggi non fanno esattamente onore a quella tradizione.

“Il modo di pensare degli israeliani sarebbe molto più produttivo se  essi smettessero di definire la situazione come un “problema” e iniziassero invece a inquadrarla come una “trappola”. Perché? Perché i problemi sono fatti per essere risolti – e questo problema non ha soluzione. Una trappola, invece, non è fatta per essere risolta, ma per essere evasa. E dalla trappola del ‘67 Israele può senz’altro evadere”.

Come molti israeliani della sua generazione, la cui giovinezza è stata segnata dal fallimento di Oslo e dalla Seconda Intifada, Goodman si oppone all’occupazione, ma al contempo disprezza molti esponenti della generazione Oslo ancora aggrappati alle stesse vecchie risposte.

“[Gli israeliani] non si chiedono mai come ridurre l’incidenza del terrorismo”, scrive. “Vogliono invece sapere come eliminarlo. Non si chiedono mai come ridurre l’intensità del conflitto, solo come risolverlo. Non si chiedono mai come diminuire l’occupazione, solo come porle fine”.

La visione di Goodman è semplice: Israele non può tornare indietro. Ma gli israeliani sono ancora in tempo per tirarsi fuori da questo gioco a somma zero, guarire le proprie ferite ideologiche, e solo allora ricominciare a pensare con lucidità alla pace coi palestinesi. Per assurdo, Goodman si rallegra del fatto che negli ultimi anni sia la sinistra sia la destra abbiano abbandonato il fervore ideologico. La sinistra non parla quasi più di pace, e al suo posto parla della minaccia demografica che incombe sulla democrazia israeliana. Il sogno messianico della destra di una Grande Israele si è ridotto in disperati avvertimenti sulla sicurezza. In entrambi i casi, le vecchie visioni positive si sono trasferite in oscuri e spaventosi presagi di sventura.

Di conseguenza, Goodman ritiene che una coalizione centrista potrebbe attrarre entrambe le parti, mediante la proposta di ridurre l’occupazione senza diminuire la sicurezza – non tanto per aiutare i palestinesi, quanto per tirare fuori gli israeliani dalla trappola.

La filosofia dei piccoli passi

Nel tardo pomeriggio, lo seguo in altri suoi impegni e presentazioni. Mi racconta della sua ossessione per le mappe. Ha studiato quelle governative e militari della Cisgiordania che mostrano gli accessi alla viabilità, la costruzione di insediamenti, le recinzioni di confine e i centri di popolazione – il tipo di mappe su cui i negoziatori del Medio Oriente si sono consumati gli occhi per decenni. “Credevo che questo libro fosse un’analisi del discorso pubblico israeliano”, confessa. “Ma da quando è stato pubblicato ho preso a interessarmi sempre più al conflitto vero e proprio”.

Gli ufficiali dell’esercito che si sono aperti con lui dopo la pubblicazione del libro, in buona parte perché nessun altro li avrebbe ascoltati, e gli hanno dato un sacco di nuove idee.

Una di queste è aumentare le strade viabili e costruire dei tunnel da far gestire all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per collegare i centri abitati e rendere gli spostamenti più semplici.

“Wow, ecco una cosa molto piccola e molto tecnica”, commenta Goodman. “Eppure ridurrebbe notevolmente l’esperienza dell’occupazione, senza minimamente ridurre la sicurezza degli israeliani. Mi ha fatto pensare, ci sono più idee, ci sono più strade come questa in grado di sabotare questo gioco a somma zero? Ogni generale col quale ho parlato ne aveva una, e allora ho pensato, se prendiamo tutte queste piccole idee e le uniamo, la loro somma ci dà una grande idea. Un vero e proprio piano”.

Cedere una parte dell’Area C (la zona sotto il pieno controllo dell’esercito israeliano) all’Autorità Nazionale Palestinese, alleggerire le restrizioni su affari e commercio, meno posti di blocco e più libertà di movimento. Solo, non chiamatelo piano di pace. E nemmeno piano provvisorio. La vera pace potrebbe arrivare dopo, o forse no. Ridurre il conflitto senza risolverlo, questo è il piano.

Suona bene, però faccio presente, sia pure a malincuore, che la maggior parte di queste proposte non sono nuove. Un’organizzazione di ex ufficiali chiamata Comandanti per la sicurezza d’Israele (CSI), per esempio, ha già presentato una proposta molto dettagliata sulla stessa falsariga, e l’Institute for National Security Studies di Tel Aviv ne ha pubblicata un’altra, che sembra proprio ispirarsi al libro di Goodman. Gli ricordo anche che “ridurre l’occupazione” non calmerà i palestinesi, che troppe volte sono rimasti scottati da promesse di piani di transizione che non hanno portato a niente. Goodman sa che i palestinesi rigetterebbero il piano. Il suo approccio al conflitto è non pretendere nulla dai palestinesi: “Israele, invece di offrire ai palestinesi di più”, scrive, “dovrebbe imparare ad aspettarsi di meno”.

Una questione di identità

Il che ci riporta alla politica israeliana. La classe politica si sarà anche interessata alle sue idee, ma la tendenza è quella contraria. Anche se esistesse una maggioranza di centro in Israele, dove sta scritto che il suo elettorato sarebbe disposto a superare le divergenze politiche?

Da nessuna parte, ammette. Il problema è ben illustrato dalla storia di una proposta che lo scorso anno era stata avanzata dal Capo di Stato Maggiore dell’esercito, appoggiata dal Ministro della Difesa e approvata dal governo di Bibi. il piano prevedeva la cessione all’ANP di terreni circostanti la città palestinese di Qalqilya, per consentirle di risolvere i suoi problemi di sovrappopolazione costruendo nuove abitazioni. Meno occupazione, non meno sicurezza. Ma non appena negli insediamenti si è sparsa la notizia, è partita una campagna di pressione, amplificata dai social media, diretta ai membri dei partiti di destra che siedono alla Knesset. La sinistra non si è pronunciata perché il piano non prevedeva nulla per terminare l’occupazione. E l’assenza di una motivata coalizione centrista, capace di affrontare la combattiva minoranza dei coloni, ha condannato il piano al fallimento.

“Il conflitto non finirà, e lo status quo è insostenibile, quindi cerchiamo di ridurlo. Forse la gente capirà che c’è una via attraverso la quale il loro scetticismo può tradursi in pragmatismo e non in indifferenza”.

Succede già da qualche parte?

“No. Gli israeliani hanno perduto la fiducia in se stessi, il che è molto inconsueto. Lo scetticismo avrebbe dovuto portare nuova curiosità e nuove idee, e invece la politica in Israele e nel mondo oggi non parla di strategie, ma di identità. Non andiamo a votare per una politica, ma per la nostra tribù. E la destra vince sempre”.

(L’articolo è apparso su Tablet Magazine, dove potete leggere la verisone originale)

Mark Horowitz
Giornalista presso Tablet Magazine

Mark Horowitz, giornalista presso Tablet Magazine, è stato redattore presso Wired e The New York Times. Potete seguirlo su Twitter.


1 Commento:

  1. Si divaga troppo su come risolvere il problema Palestinese ! Tutta la Palestina originariamente nel 1920 quando era un protettorato Britannico comprendeva la Transgiordania che i Britannici nel 1921 “destinarono…..” agli arabi Palestinesi .territorio tre volte Israele compresa la Cisgiordania. Vogliamo mettere sul piatto delle trattative di pace questa decisione arbitraria !? Decisa al tavolino ! Tirando dentro Londra e le sue responsabilità e RE Hussein con i suoi privilegi acquisiti in funzione degli interessi Britannici dell’epoca . Questa è l’unica strada politicamente e legalmente percorribile !


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