Cultura Cibo
Michael W. Twitty, lo chef che fa dialogare le tradizioni ebraiche e afroamericane

Perché cucinare signifca raccontare e preservare la cultura dei popoli

In occasione del Martin Luther King Jr. Day, The Forward pubblica una serie di storie legate alle tradizioni culturali ebraiche, al razzismo e alla giustizia sociale. Riprendiamo la storia di Michael W. Twitty, chef e storico culinario ebreo e di colore. Per lui studiare ciò che la gente mette nei piatti non significa solo scoprire con quali cibi si alimenta, ma soprattutto scoprire quali storie voleva raccontare. Twitty parla degli schiavi che vissero nell’America pre-bellica, per cui la cucina era uno dei pochi modi per preservare, adattare e tramandare le loro tradizioni.

Dal lancio del suo blog Afroculinaria nel 2010, Twitty si è affermato come cronista impegnato dalle cucine portate avanti per generazioni da schiavi afroamericani. Come interprete storico, ha ricreato metodi di cucina dell’epoca nelle ex piantagioni di cotone e si è espresso contro i turisti che visitano quei siti senza voler conoscere le persone che vi sono state costrette a lavorare.

Come chef, Twitty ha condotto tour culinari in Africa occidentale, insegnando le tradizioni che ancora oggi influenzano la cucina americana contemporanea. E come scrittore, ha vinto il James Beard Award per la migliore scrittura alimentare con il suo libro del 2018 “The Cooking Gene”, un libro di memorie che ripercorre le origini della cultura alimentare del Sud e la sua storia familiare. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro, “Kosher Soul”, che esplorerà l’intersezione tra la cucina ebraica e quella afroamericana.

In un’intervista, riportata appunto su The Forward, la giornalista Irene Katz Connelly parla con Twitty a proposito di tradizioni e di una festa, Juneteenth, che segna la fine della schiavitù (dal 19 giugno 1865, giorno in cui i soldati dell’Unione arrivarono a Galveston, in Texas, portando la notizia della scomparsa della Confederazione agli ultimi schiavi in America), in cui si mangiano tradizionalmente cibi rossi: rosso è il colore della creatività, della guerra e della resistenza. Si parla del cibo come veicolo di informazioni, storia e tradizione, “Ci sono pochissimi modi per conoscere le persone che hanno alimentato il nostro pool genetico”, spiega Twitty, “Ma quando mangiamo lo stesso cibo, c’è un senso di continuità”.

Non solo: preparare cibi particolari è come usare un dispositivo mnemonico. Ci si dimentica, spiega lo chef, che l’obiettivo della schiavitù era quello di uccidere la cultura africana. “Quindi qualsiasi cosa si facesse per ricordare e perpetuare la propria tradizione era resistenza”, commenta Twitty.

Così questo approccio con la cucina diventa la sua missione, immerso nella conoscenza della sua storia e delle tradizioni locali, a cominciare dagli esperimenti casalinghi messi a punto quando era ancora un ragazzino (e poco graditi dalla madre che diceva: “Per favore, non ucciderti, e se lo fai, lascia prima la cucina pulita”).

Ma il vero punto di svolta per capire quanto fare la storia dell’alimentazione coincida con quella dei popoli è stato insegnare alla scuola ebraica, dove Twitty ha lavorato per 15 anni. “Ho insegnato spesso la Shoah, e ho iniziato a cucinare e a leggere da “In Memory’s Kitchen”, un libro di ricette raccolte da donne imprigionate a Theresienstadt. Ricordavano la grande cucina che avevano assaporato – tutti quei dolci e dessert mitteleuropei – e fantasticavano su quello che avevano mangiato prima della guerra. Quella raccolta mi permetteva di parlare con i miei studenti della vita e della resistenza, non solo della morte”, spiega Twitty. “A un certo punto ho pensato: non sarebbe stato interessante se qualcuno fosse stato in grado di fare lo stesso durante il periodo della schiavitù? Cosa avrebbero detto le nostre nonne africane e le nonne afro-creole e le nonne afro-americane? Che cosa avrebbero detto i pasticceri schiavizzati, i cuochi delle taverne e le persone libere di colore? E questo è ciò che mi ha spinto a concentrarmi sulle abitudini alimentari degli schiavi“.

Un progetto importante, che lo ha portato anche a mettere in scena la storia, cucinando in abiti da schiavo. L’obiettivo? Capire come ci si sentiva veramente. Capire perché le cose sono andate come la Storia riferisce e trasmetterla a tutti. Un modo diretto, empirico e quasi teatrale di fare memoria. Che guarda anche al presente, fatto, nel caso di Twitty, di due tradizione diasporiche, quella afroamericana e quella ebraica, che si incontrano a tavola in un dialogo costante. Qui trovate l’articolo completo

 

 


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