Hebraica Nizozot/Scintille
Mosè Maimonide, il sempreverde del pensiero ebraico

Riflessioni sull’inscindibilità tutta ebraica della sfera del credere e dell’osservare dalla sfera del sapere e del pensare

La recente traduzione italiana delle Hilkhot yesodè haTorà di Mosè Maimonide, il Rambam, con il titolo Norme sui fondamenti della Torà, a cura di Roberto Gatti e con la postfazione di rav Michael Ascoli presso Giuntina (pp.140, 16 euro), è un’ottima occasione per tornare a riflettere sul pensatore e sull’uomo che Yeshayahu Leibowitz definì “la più alta incarnazione della fede ebraica in seno alla storia degli ebrei” e questo perché “tutte le grandi correnti del pensiero religioso ebraico si riversarono in quel mare immenso che fu Maimonide”. Può suonare un giudizio iperbolico, ma la ‘storia degli effetti’ ossia la ricaduta dell’opera maimonidea sul dibattito tra i maestri e nel vissuto delle comunità dal XIII secolo (il Rambam muore nel 1204) ad oggi lo conferma. E se pochi halakhisti, come Joseph Caro ad esempio, hanno esercitato un’influenza superiore o pari a quella che nel tempo ebbe il Mishnè Torà, il grande codice halakhico del Maimonide, nessuno gli fu mai pari sul piano del pensiero ebraico, e il suo Morè nevukhim ovvero La guida dei perplessi resta un monumento eccezionale del fecondo scambio – ora conciliante, ora conflittuale – tra ebraismo, filosofia islamica e pensiero greco, continuamente rivisitato e citato e ovviamente pure problematizzato da chi la religione (ebraica) non solo la pratica ma anche la pensa.

Hilkhot è il plurale, allo stato costrutto, di halakhà, ma accostato ai ‘fondamenti della Torà’ può suonare strano. Si può ‘normare’ ossia dettare regole e fissare precetti su ciò che fonda la divina rivelazione? Il trattato di cui parliamo, ora disponibile nella nostra lingua con un’introduzione storico-filosofica e illuminanti note esplicative, è il primo dei cinque trattati che compongono il primo libro (di quattordici, da cui il nome Yad chazaqà ovvero la ‘mano forte’ con cui il codice è altrimenti noto) del Mishnè Torà, libro che porta il significativo nome di Sefer ha-madda‘ cioè Rotolo della conoscenza, o forse meglio della scienza in senso vasto e inclusivo tipico dell’età medievale. Infatti per fondamenti della Torà il Rambam intende ‘le scienze’ o le ‘vie della conoscenza’ delle cose divine e delle cose umane, dei mondi superiori e della sfera sublunare, dei segreti delle Scritture come dei miracoli compiuti da Mosè e gli altri profeti… Dunque, non sono tanto questi fondamenti a essere ‘normati’, quanto invece il nostro modo di accedervi e le idee che occorre sviluppare con la ragione per comprendere chi siamo nel mondo e come il Santo benedetto vuole che noi usiamo del Suo mondo; resta fermo infatti che il Creatore stesso “non è davvero comprensibile all’essere umano” la mente del quale “non ha la forza di percepire la vera essenza del Suo esserci” (I,10). Il trattato si configura così come un’introduzione, diremmo, metafisica ed epistemologica a tutti gli altri trattati: metafisica perché tratta del Divino e delle sfere celesti abitate da infinite creature spirituali; ed epistemologica perché instilla ripetutamente la convinzione dei limiti della nostra conoscenza di quei mondi superiori e della nostra sostanziale ignoranza delle cose divine, sebbene “il fondamento dei fondamenti e il pilastro delle scienze consista nel sapere che esiste un Ente primo che fa esistere ogni altro ente…” (I,1). Non è un testo facile, vero, ma ciò non lo rende meno affascinante in quanto fonte di continua ispirazione, dentro e fuori la cerchia dei cultori della filosofia ebraica.

In effetti, proprio l’architettura del codice halakhico maimonideo – se comparato con l’autorevole codice di Itzchaq Al-Fazi (il Rif) di circa un secolo precedente – risultò da subito estremamente innovativa, quasi rivoluzionaria: il Mishnè Torà non segue più l’ordine dei trattati talmudici ma riordina l’halakhà in quattordici macro-temi giuridico-religioso-politici; non solo omette il materiale aggadico ma non cita neppure le fonti su cui poggiano le norme halakhiche; in più, premette a tutto ben cinque trattati dove il pensiero e la definizione concettuale sono questioni molto filosofiche (in senso medievale): gli elementi e la struttura del cosmo, la natura della profezia, il qiddush haShem, e poi ancora la moralità dei comportamenti (de‘ot), lo studio (talmud Torà), la teshuvà e il perenne rischio dell’idolatria. Il Rambam ebbe l’ardire persino di riformulare i 613 precetti in un Sefer ha-mitzwot che corregge tale elenco presente in analoghe opere scritte prima di lui. Se poi aggiungiamo che il suo approccio generale all’interpretazione delle Scritture era impregnato di un certo ‘metaforismo’ e ‘minimalismo’, in materia ad esempio di miracoli e persino su temi sensibili come l’immortalità dell’anima e la venuta del messia – gli si diede del razionalista, quasi fosse un’accusa (da parte dei suoi detrattori) – si capisce come il Rambam rappresentò una svolta proprio nel modo di pensare l’ebraismo: egli lo aprì a vie nuove, oggi diremmo ‘vie ermeneutiche’, capaci di superare le sacche sia di infecondi fondamentalismi (o tradizionalismi) sia di altrettanto sterili rifiuti di una fede passata al vaglio dello studio dei testi.

Certo, il Maimonide pagò il prezzo di un certo cedimento al linguaggio della sapienza greca: innegabile il suo aristotelismo quando parla della virtù come giusto mezzo tra estremi viziosi (si vedano gli Shmonè praqim, quegli Otto capitoli che fungono da introduzione ai Pirqè Avot). Altrettanto innegabile una poco ebraica inclinazione al dualismo di anima/corpo, tipico dell’ellenismo. Ancora, l’aver sintetizzato (per la prima volta nella storia del giudaismo) la fede ebraica in tredici ‘iqqarim o principi (che si trovano nel Pereq cheleq che introduce il capitolo decimo del trattato mishnico Sanhedrin) è una specie di pedaggio pagato all’ambiente cairota in cui viveva, segnato nel XII secolo dalle scuole teologiche asharite e mutazilite dell’islàm da un lato (quello esterno) e dalla polemiche con i caraiti dall’altro lato (quello interno). Nondimeno, nell’insieme la sua rielaborazione del giudaismo resta saldamente ‘ortodossa’ e finisce, anzi, per rendere ortodosse e canoniche anche alcune credenze che, a quell’altezza storica, erano ancora piuttosto vaghe, come l’idea della creazione del mondo e quella, non meno fondamentale, di libertà umana e la conseguente remunerazione – ovvero la dottrina dei meriti – senza le quali “la Torà e le ammonizioni dei profeti – afferma il Rambam – sarebbero state date inutilmente” (cfr. Guida III,32).

Alla luce di tutto ciò, appare verissimo quel che afferma il già citato professor Leibowitz – come continua a essere chiamato in Israele a quasi trent’anni dalla sua morte – ovvero che “non è affatto accettabile la distinzione tra il Maimonide legistatore [halakhista] e il Maimonide uomo di pensiero [filosofo], tra il Mishnè Torà e il Morè nevukhim. (…) Chiunque voglia arrivare a una lettura autentica della sua opera deve prima riconoscere la profonda unitarietà e omogeneità della sua figura e dei suoi scritti e guardare al suo codice halakhico e alla sua opera filosofica come a un unico sistema”. In piccolo, anche il trattato Norme sui fondamenti della Torà mostra quando sia difficile, e in vero impossibile, operare tale separazione; e quanto bene faccia all’ebraismo guardarsi dal separare la sfera del credere e dell’osservare dalla sfera del sapere e del pensare.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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