Cultura
“My name is Barbra”, l’autobiografia di Barbra Streisand

Storia di una donna vulcanica, geniale e talentuosa, capace di debellare ogni forma di pregiudizio

È uscita da pochi giorni la prima autobiografia di Barbra Streisand, “My name is Barbra” (Viking), dopo molte biografie non autorizzate che spesso ce l’hanno presentata come una star avida e capricciosa, una regista egocentrica, vitale ma in senso negativo, un bulldozer, probabilmente in virtù di un leggero antisemitismo di chi le ha firmate. Questa l’ha scritta proprio lei, con piglio da leonessa e una buona dose di auto ironia e humour, doti che fanno pensare a una donna tutt’altro che arrogante, anzi, una che si è messa in gioco tutte le volte e che lo ha fatto con umiltà e impegno.

Nelle 970 pagine che  compongono le memorie troverete tutto quello che probabilmente ci si può aspettare dal personaggio. Un’infanzia infelice segnata dalla morte del padre amato ma mai conosciuto, in seguito a un’emorragia cerebrale, la madre anaffettiva e invidiosa, il patrigno ostile. Una carriera leggendaria iniziata da giovanissima contraddistinta dall’incredibile talento e forza di volontà che hanno trasformato la cantante attrice di Brooklyn (lei diceva di essere nata a Smirne per darsi un tono) in un’icona, un mito eterno. E poi il naso mai rifatto per la paura del bisturi, fonte del suo potere come i capelli per Sansone. La “a” tolta al nome nel momento del lancio a diciotto anni, per essere unica, speciale. Una miriade di facce e apparizioni, tra co-protagonisti dei suoi film, produttori e registi, l’empireo hollywoodiano al completo, da Robert Redford, Omar Sharif, Elliot Gould, mentre fanno capolino anche star più anziane come Katherine Hepburn e perfino un accigliato Lee Strasberg. Barbra non si è mai sentita bella eppure ha posato per Playboy. I suoi partner confessano che dopo una prima impressione sfavorevole tutti sono caduti in preda al suo fascino: Redford ammette che la femminilità travolgente della sua compagna di lavoro in “The way we were” (“Come eravamo”) stimolava la virilità negli uomini, mentre il suo lato maschile li incoraggiava a provare sentimenti più tenui e femminili.

Ma soprattutto la Streisand è stata un simbolo di rivalsa  per tutte le donne ebree, un invito a forgiare la loro identità e personalità senza paura di venire giudicate per il loro aspetto. Lo ha fatto declinando il suo ebraismo nei personaggi che ha interpretato: Fanny Brice in Funny girl, Dolly Levy in Hello Dolly, la ragazza che studia nella Yeshiva in Yentl, la psichiatra nel Principe delle maree, la timida Rose ne Lo Specchio ha due facce. Ha ribaltato lo stereotipo del gentile che si innamora della fanciulla di religione ebraica: spesso è lei che si innamora di un goy che poi non si rivela all’altezza delle sue aspettative come il codardo Hubbell che non sa tenere testa alla vulcanica Katie. La Streisand può denunciare il suo ebraismo, è la star giusta al momento giusto. Una ventina di anni prima non avrebbe potuto, in una Hollywood creata dagli ebrei ma dove gli ebrei dovevano camuffarsi per poter recitare; negli anni 60 invece Barbra può affermare candidamente in Funny girl, lo script che la portò alla fama, arrivato al cinema dopo anni di successo in teatro, che lei è un bagel su un vassoio di cinnamon rolls  fino all’iconica esternazione: “Is a nose with a deviation/such a crime agains the Nation?” No, adesso non lo è più.

In un certo senso il suo percorso è simile a quello di Woody Allen. Entrambi finalmente possono affermare la loro jewishness, essendo americani ed ebrei allo stesso tempo, e lo fanno con allegria e un pizzico di aggressività, ribadendo il concetto, facendone uno stile di vita, rappresentando una delle tante facce dell’America di cui si può essere orgogliosi. Come quando proprio Allen in “Prendi i soldi e scappa” ogni tanto fa apparire un comico rabbino barbuto, anche se la sceneggiatura non ne ha assolutamente bisogno. Lo fa perchè sì, perché adesso può farlo, come Mel Brooks può presentarci due scanzonati truffatori ebrei in “The producers”. Questo non significa che nello show business non restino tracce di antisemitismo. La Streisand ne parla quando descrive la gestazione e realizzazione del film “Yentl”, tratto da un racconto di L.B.Singer, considerato “troppo ebraico” e quindi accolto con scetticismo dai produttori. Riuscì a realizzarlo solo accettando di recitarci lei stessa. Ma ancora la accusarono di aver scelto soltanto attori ebrei come Mandy Patinkin (Avigdor) e Carol Kane (Hadass): alla fine la sostituì Amy Irving (anche lei aveva padre ebreo ma la Streisand si guardò bene dal rivelarlo).

Alle difficoltà di essere una jewish star si aggiunsero poi quelle di essere una regista donna, a cui tutti deve insegnare qualcosa, come il direttore della fotografia, il celebre Vincenzo Storaro, che alla fine Barbra licenziò perché stava snaturando il film e imponendo la sua visione che non coincideva affatto con quella di lei.
Le ultime inquadrature del film mostrano Yentl sulla nave che la porterà in America insieme agli altri correligionari e sono un inno alla speranza di arrivare in un luogo dove le donne possano studiare, le differenze possano trovare accoglienza e rispetto. Yentl dedica la sua struggente canzone “Papa can you hear me” a suo padre, ma anche a tutti i padri simbolicamente venuti prima di lei; ma poi si affranca dal ruolo di figlia e di subalterna, affermando di non vederlo e di non sentirlo più e invitandolo, quasi come se fosse una sfida, a “vederla volare”. E sintetizzano bene la carriera della Streisand: un orgoglioso attaccamento alle radici ma anche l’ambizione, la determinazione a non farsi schiacciare da una società maschilista e a far sentire la sua voce. Come quando, ormai anziana, scoprì che Dustin Hoffman, suo partner in quella pellicola comica ma senza troppe pretese che è “Meet the Fockers” guadagnava il triplo di lei. La produzione si scusò (casualmente era stata l’ultima a firmare il contratto) e Ron Meyer a capo della Universal alla fine le concesse un bonus pensando che avesse subito un’ingiustizia. Ma la strada per l’uguaglianza è ancora lunga. Lei comunque ne ha baldanzosamente percorso un bel tratto.

Barbra Streisand, My name is Barbra, Penguin Putnam Inc, 42,50 euro

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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