Cultura
Netanyahu e i difficili compromessi con la destra radicale

Quanto il premier, conosciuto come un leader pragmatico, potrà resistere alle molteplici ed estreme istanze radicali della destra che lo sostiene al governo?

E alla fine Benjamin Netanyahu ha licenziato il governo «più a destra di sempre» (così secondo molti commentatori), quello che, se riuscirà a sopravvivere ai marosi, ai tormenti e all’abituale malmostosità della politica parlamentare israeliana – dove i ricatti sono parte stessa del costituirsi in coalizione – sposterà comunque il premier verso posizioni ancora più radicali di quelle che ha manifestato fino ad oggi. Non sarà infatti lui – come invece si illudono quanti ripongono nella sua persona, comunque carismatica, la fiducia in una gestione sensibile al rispetto delle regole vigenti – a dettare  autonomamente i diversi passaggi a venire. Poiché dovrà navigare semmai in nuove acque, comunque tempestose, dove a determinare i movimenti tra i flutti, i cavalloni, i frangenti, le ondate determinate da una coalizione rigidamente radicale, saranno i suoi partner. Così alcuni commentatori: «L’accordo è frutto di un serratissimo negoziato con il partito di Ben-Gvir ‘Potere Ebraico’ e concederà all’ultradestra nazionalista le chiavi per accedere ai gangli del potere in cambio del sostegno politico e di un tornaconto personale per Netanyahu» (ossia l’autorevole Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, espressione, in Più aspetti, del pensiero della Farnesina). Tutto ciò parrebbe testimoniato, per più aspetti, dalle serrate consultazioni che si sono tenute dal 7 novembre in poi, tra le rappresentanze dei partiti della coalizione vincente. Che non costituiscono un blocco unitario ma un’alleanza di potere.

Nella peggiore ipotesi (per il premierato stesso) potrebbe allora configurarsi anche una rottura della medesima, che già da adesso nasce tra richieste insindacabili, veti e ricatti di piccolo e grande cabotaggio. Netanyahu, nel suo egotismo (che è cosa ben diversa dal narcisismo) ha scelto questa prospettiva e, a fatti compiuti, verrà giudicato su un tale piano. Il Likud, il partito al quale ha garantito il ragguardevole risultato di 32 seggi su 120 (un esito encomiabile dal punto di vista della lista, se si fa eccezione per i formidabili anni Settanta ed Ottanta, con il culmine dei 48 scranni ottenuti nel 1981), è oramai una formazione politica che, avendo espunto da sé una lunga lista di esponenti storici della destra nazionalista, e dei suoi figli, nipoti ed epigoni, ruota interamente intorno alla figura del leader indiscusso. Un partito che si è progressivamente auto-esautorato, annullando la dialettica interna e aderendo esclusivamente al calco di «Re Bibi». Basti sapere che quand’egli dovesse declinare, anche il partito, che si è appiattito sulla sua persona, subirà il medesimo destino. Ma quest’ultimo non è un tema dell’oggi. Semplicemente va registrata l’emorragia che negli ultimi vent’anni ha contrassegnato la destra nazionalista israeliana (da Sharon a Sa’ar, passando per Livni, tanto per fare qualche nome tra i più noti), che quindi ha poi progressivamente rivestito i panni di destra sovranista e populista, quella che meglio si confanno al suo leader indiscusso.

Il refrain, a ben vedere, rimane sempre il medesimo, a Gerusalemme come in tutte le democrazie occidentali, ovvero «lo vuole il popolo». E nel nome della collettività maggioritaria, il nuovo esecutivo si appresta ad aprire tutta una serie di dossier e file che, qualora dovessero essere affrontati per davvero, trasformerebbe aspetti significativi degli equilibri del Paese. Dai tempi di Yitzhak Rabin, e del suo assassinio (1995), ad oggi, di acqua ne è passata sotto i ponti. Più di quanta ne potesse contenere l’alveo del fiume che, in tale modo, rischia invece di fuoriuscire dagli argini. Allora si parlava di reciproco riconoscimento con i palestinesi. Non era un esercizio di “buonismo” ma la manifestazione di una consapevolezza, ovvero che senza reciprocità, ancorché asimmetrica, non ci sarebbe stato un qualche futuro decente e, soprattutto, sostenibile. Per nessuno. Oggi, invece, la scena è completamente diversa. Non è un problema solo d’Israele bensì di tutto il cosiddetto «Occidente». Poiché le involuzioni della globalizzazione, e le tante giravolte che si sono succedute in un lasso di tempo assai breve, una ventina d’anni, sono tali da potere dire che nel mentre – invece – sembrano essere passati secoli. Beninteso, il problema non è quello di dirsi di «destra o di sinistra» ma di comprendere quale sia il destino a venire delle democrazie liberali e sociali. Liberali poiché incentrate sull’individuo, in quanto portatore e destinatario di diritti insindacabili, che nessuno potrà mai cancellare se non a rischio di deformare la stessa natura umana; sociali, nella misura in cui tali diritti, attribuiti per l’appunto ad ogni persona, sono però effettivamente esistenti solo se si incontrano con il resto della collettività.

Al centro di tutto rimane l’equilibrio dei poteri, quel precario ma fondamentale viluppo di linee di separazione, così come di influenza reciproca, che preservano il dispositivo democratico. A questa nuova maggioranza, nel parlamento israeliano, nel governo come anche nella società nazionale, pur con i distinguo del caso, una tale separazione, che è garanzia e presidio di giustizia e libertà, probabilmente non interessa. C’è molta preoccupazione, al riguardo, in Israele. E non solo nel Paese. Gli osservatori internazionali, a partire dagli Stati Uniti, tengono sotto osservazione la nuova coalizione e il suo esecutivo, temendo uno spostamento dell’asse politico nazionale verso quel radicalismo che rischia di ingenerare tensioni di ogni genere e tipo. In quanto il nuovo governo Netanyahu non è di centro-destra ma di destra. Ossia, il risultato di una coalizione tra la destra nazional-populista e quella radicale. Punto e a capo.

Per certuni, tutto ciò vorrà dire nulla di che. Per altri, non pochi, è invece ragione di tante preoccupazioni. L’aspetto decisivo è quanto il premier, conosciuto come un leader pragmatico, potrà resistere alle molteplici spinte che dagli esponenti più radicali gli deriveranno. Cercando di trasformare Medinat Israel (lo «Stato d’Israele») in Regno di Giudea (cosa ancora diversa dall’utopia realizzata di Eretz Israel). Per capirci: il messianismo di cui necessitano le punte estreme, ben poco ha a che fare con le occorrenze di uno Stato nazionale, mentre invece soddisfa i bisogni di chi si proclama esclusivo sovrano di se stesso,a prescindere da ciò che lo circonda. La crisi della politica, in Israele come nel resto del mondo a sviluppo avanzato, è giunta a questo risultato.

Certo, di mezzo ci sono molte cose che, chi non vive nel Paese, fatica a comprendere: la decomposizione dell’Autorità nazionale palestinese, sospesa tra notabilato e radicalismi, laddove il passaggio generazionale nella leadership avverrà, in tutto probabilità, in modo doloroso, di qui a non molto; la virulenza del terrorismo, che si alimenta da sé, senza avere altro obiettivo che non sia il rinforzarsi come soggetto indipendente da qualsiasi residua ragione politica (la costruzione di uno Stato palestinese, in queste condizioni e a tali termini, è poco più di una finzione); il clima di guerra, che trasuda da tutto la regione mediorientale, ben sapendo che – prima o poi – altri regimi e società sono destinati a involvere, semmai trattandosi solo di questione di tempo; la divisione tra i paesi arabi (e musulmani) che sta separando quanti vanno riconoscendo – nei fatti – l’irrevocabilità storica d’Israele e coloro che invece persistono in una demenziale contrapposizione di principio; la frattura tra la società araba e quella ebraica nello stesso Israele (con le sollevazioni e i riots dei mesi scorsi nelle città cosiddette «miste») e quindi la crisi del pluralismo intercomunitario; l’assoluta mancanza di un’alternativa credibile a chi, invece, da molto tempo domina il panorama politico e culturale nazionale. A tale riguardo, il paradosso che potrebbe ingenerarsi è quello per cui la crisi definitiva della sinistra determini un tracollo del pluralismo politico (che è invece alle origini dello stesso progetto sionista), con il risultato di colpire, in prospettiva, la stessa maggioranza di destra, a quel punto impossibilitata a confrontarsi – e quindi a muoversi – dentro un’altrimenti indispensabile dialettica tra opzioni distinte: il liberalismo civico di Yesh Atid non potrà mai surrogare efficacemente un tale stato di cose.

Non si può capire Israele, e le sue scelte di lungo periodo, se non si ha cognizione di una tale cornice. Non tanto per giustificare qualcosa o qualcuno quanto per motivare e comprendere quali siano le dinamiche in corso. Così come, ed in ciò il paese partecipa in tutto e per tutto ai percorsi che attraversano le società occidentali, va registrato che il declino, e poi il tramonto, delle sinistre industriali (che in Israele contano oramai un’irrilevante manciata di seggi al parlamento), si è tradotto nell’ascesa, e infine nell’affermazione, di un radicale e pervasivo populismo sovranista. Non importa di quale colore poiché esso ha sempre radici comuni, da destra come da sinistra, aspirando quindi alla rappresentanza di una collettività il cui sentire predominante è il risentimento, ossia la convinzione di essere stati esclusi dalla redistribuzione dei benefici di una società comunque in trasformazione e, quindi, in evoluzione. A tale riguardo, se i sociologismi economici non bastano, al medesimo tempo non sono sufficienti i rimandi ai solo elementi di quadro regionale: violenza terroristica, instabilità persistente dei paesi limitrofi, inconsistenza dell’interlocutore palestinese da sé non bastano a spiegare i tormenti interni al Paese. Peraltro, mai un voto collettivo (che questa volta ha interessato più dei due terzi del corpo elettorale) potrà essere letto con una sola, esclusiva chiave. Semmai tutto ciò, ed altro ancora, va inquadrato dentro una trasformazione che sta torcendo una parte rilevante d’Israele, di fatto dettando, sul piano politico, nuove coordinate di condotta.

Ne è testimonianza la frattura che si è andata a determinando nella stessa destra nazionalista. Non basta, a tale riguardo, ripetere il mantra per cui la «maggioranza bricolage» del governo Bennett- Lapid, nella sua innaturale unione tra partiti di opposte tendenze, celebrata quindi nel rimando esclusivo ad uno sbarramento contro Benjamin Netanyahu, fosse comunque destinata a crollare da sé. Nei giorni scorsi il ministro uscente delle Finanze, Avigdor Lieberman, leader di Yisra’el Beiteinu, partito saldamente di destra ma laico, ha parlato di un nuovo «governo delle tenebre che promuoverà lo stato halachico» (il rimando è alla legge religiosa ebraica). Lo dice ai soprattutto ai suoi elettori, reali e potenziali, richiamando il fantasma di un’ultraortodossia che a molti di essi risulterebbe indigesta. Si possono liquidare queste affermazioni, ed altre ancora, come un velenoso lascito da parte di chi è stato sconfitto. Così come si possono archiviare i richiami al «fascismo» che una parte delle sinistre stanno alimentando dinanzi al quadro politico che si è delineato. Ma non si può tuttavia non riflettere sulla tentazione, mai nascosta peraltro, che il connubio tra destre ipernazionaliste, religiose e radicali, nutre rispetto alle trasformazioni da introdurre nel rapporto tra laicità delle istituzioni nazionali e religiosità collettiva. Sancendo la prevalenza della seconda quand’essa non sia tanto la manifestazione di un comune sentire popolare bensì il prodotto di una congerie di poteri che si pongono come obiettivo la desecolarizzazione delle istituzioni nazionali. Per capirci, al pari delle destre postindustriali di altre parti del mondo, la risposta che viene offerta non è quella di un ritorno alla confessionalità – di per sé mero aspetto dei caratteri personali e familiari dei singoli cittadini – ma piuttosto ad un’investitura etnica della cittadinanza medesima, laddove l’appartenenza ad uno Stato verrebbe definita e declinata nei termini di una democrazia dei soli identici, quelli che appartengono al medesimo ceppo per nascita e lignaggio. La sanzione definitiva di questa condizione riposerebbe nella religione, ossia nel suo fondamento pubblico, la cui appartenenza verrebbe definita in termini di maggiori (per gli ebrei) o minori (per i non ebrei) possibilità di accesso ai diritti di cittadinanza. Di fatto ciò comporterebbe una segmentazione di quest’ultima, una frattura sulla scorta di caratteri ascrittivi, destinati a pesare sulle persone in termini di destino individuale e collettivo.

Chiunque abbia un minimo di conoscenza dei processi democratici, sa benissimo che tutto ciò ha poco, se non nulla, a che fare con un’impostazione autenticamente inclusiva, essendo semmai il prodotto del ribaltamento storico del rapporto tra pluralismo delle identità individuali e ricomposizione in una collettiva sovrana. In questo quadro si inseriscono quindi le manifeste intenzioni della nuova maggioranza, per la quale il potere politico deve controllare (e presumibilmente guidare) le istituzioni indipendenti, a partire dalla polizia e dalla magistratura. Su questo declivio le diverse leadership della destra (Itamar Ben-Gvir, Bezalel Smotrich, Aryeh Deri, Yitzhak Goldknopf e lo stesso Netanyahu) hanno trovato un terreno di comune intesa, al di là delle vicende giudiziarie che interessano alcuni suoi esponenti. Poiché il vero punto di sutura tra le diverse posizioni è la manifesta intolleranza verso il pluralismo dei poteri. Ben-Gvir, al quale competerà il ministero della Sicurezza, già destinatario di diverse inchieste della polizia che ne hanno ripetutamente indagato l’effervescente (ed eversivo) radicalismo, non cerca solo di mettere una pietra sepolcrale sopra tali indagini: semmai ritiene che le forze dell’ordine debbano trasformarsi nel braccio secolare di una parte del potere politico.

Così come l’ossessione feticista per la terra, che è cosa molto diversa dalle politiche per la sicurezza del Paese, è un altro ambito sul quale si celebra un difficile matrimonio tra destra secolarizzata (in via di declino) e religiosi, posto che entrambi gli schieramenti di maggioranza puntano ad un’accresciuta evoluzione degli insediamenti in Cisgiordania, anche a rischio di fare tracollare quel che resta della periclitante, senescente e anacronistica Autorità nazionale palestinese, il cui collasso si riverserebbe inesorabilmente su tutto Israele.

In una tale agenda, in assoluta sintonia con il comune sentire delle destre populiste occidentali (e non solo) contro il secolarismo, soprattutto nelle scuole, e quindi contro la fantasmagorica «ideologia gender» (in altre parole, le identità di genere e quelle Lgbtqia+), il tema di una rivolta morale e civile dei maschi bianchi contro la sovversione dei ruoli, a partire da quelli sessuali, altrimenti destinati a riflettersi nella fluidità delle moderne società, è un tratto fondamentale del progetto della loro riconquista per via politica. Per capirci, qualcosa di molto diverso, e lontano, dalle coalizioni elettorali, e quindi dal voto, che negli anni Settanta e Ottanta avevano invece sancito la preminenza del Likud sui già declinanti laburisti. Così ancora l’Ispi: «tra le decisioni più controverse c’è quella di concedere il ministero della Pubblica Sicurezza ampliato dei suoi poteri a Itamar Ben Gvir […] autore di una retorica incendiaria contro i palestinesi e noto per aver incitato più volte alla violenza contro di loro. Bezalel Smotrich, a cui Netanyahu vorrebbe invece affidare la delicata gestione delle politiche israeliane in Cisgiordania, sostiene l’espansione delle colonie e l’estensione della legge israeliana sul territorio palestinese militarmente occupato. Un altro futuro ministro è Avi Maoz, del partito Noam, noto per le sue posizioni omofobe e sessiste: ha proposto di vietare il Gay Pride a Gerusalemme, è contrario all’integrazione delle donne nell’esercito e vuole limitare fortemente l’immigrazione in Israele in base ad un’interpretazione molto restrittiva della Legge del ritorno che garantisce cittadinanza israeliane ad ogni persona di discendenza ebraica purché si trasferisca in Israele. Un altro partner della coalizione, Aryeh Deri, capo del partito ultraortodosso Shas, è in pole per diventare ministro delle Finanze, nonostante una condanna per frode fiscale».

La cultura politica della destra radicale israeliana (che non interessa direttamente Netanyahu ma che ora, volenti o nolenti, viene per la prima volta imbarcata in un esecutivo e in una maggioranza parlamentare) rimane ancorata al kahanismo. A lungo espressosi underground, poiché interdetto dallo stesso spazio pubblico israeliano, è per molti aspetti l’artefice della distruzione di ogni progetto non solo di pacificazione con i palestinesi ma di negoziazione con il mondo arabo. Nonché di una visione pluralista della società israeliana. Il rabbino Meir Kahane, assai più prossimo agli ayatollah di Teheran che non al sionismo nazionalista, finché ebbe fiato in corpo espresse non solo la sua razzistica avversione nei confronti degli «arabi» ma anche l’esigenza, a parere suo, di dare una fondazione teocratica allo Stato d’Israele. La storia del suo partito, il Kach, è controversa per più aspetti. Già a metà degli anni Ottanta, malgrado l’irrilevante riscontro ottenuto nelle elezioni del 1984 (26mila voti), quando si profilò la possibilità di ottenere ben altri risultati (le proiezioni del tempo, dinanzi allo scollamento che si stava verificando in una parte dell’elettorato del Likud, indicavano in un futuro esito un premio per gli estremisti, con dodici seggi alla Knesset), fu interdetto dalla partecipazione politica. Lo stesso Kahane venne assassinato da elementi che sarebbero poi confluiti in al-Qaeda. Da questo drammatico evento derivò una piccola diaspora politica. Basti pensare che Otzma Yehudit, formalmente costituito nel 2012 e di cui Itamar Ben-Gvir ne è il maggiore esponente, si presenta oggi come il prosecutore, sia pure su una linea legalitaria, delle posizioni di Kahane.

Va peraltro detto che il kahanismo è riemerso dalla sua condizione di marginalità proprio grazie allo stesso Netanyahu quando, nelle elezioni dell’aprile 2019, entrò a fare parte dello schieramento che sosteneva l’uscente premier. Solo nel 2021, tuttavia, Ben-Gvir sarebbe entrato definitivamente nella Knesset, con una lista congiunta che dava corpo e sostanza all’accordo elettorale che è conosciuto adesso come «sionismo religioso». Da allora, quindi, è stato un veloce working in progress, tra tatticismi, accordi di circostanza, mediazioni e, infine, soprattutto costruzione di un vero e proprio fronte del risentimento e della rivalsa. Che oggi si presenza come forza di maggioranza.

Il kahanismo (espressione peraltro rigettata dai suoi seguaci, che invece si identificano come ebrei devoti all’Halakha), nella sua radice più profonda, propugna la sostituzione dell’attuale diritto positivo vigente in Israele con la legge ebraica. Da ciò fa derivare il convincimento per il quale gli arabi d’Israele costituiscano un elemento estraneo, ossia potenzialmente ostile, al Paese. Il quale dovrebbe semmai dotarsi di una teocrazia giudaica, che includerebbe i territori non solo dell’attuale Medinat Israel e della Cisgiordania ma anche parti dell’Egitto, del Libano, della Siria e dell’Iraq. Va da sé che tra queste teorizzazioni, che servono per fidelizzare adesioni e voti, difficilmente potranno mai tradursi in un progetto politico compiuto. Rimane tuttavia il fatto che, al pari di quanto sta avvenendo in altri parti del mondo, il kulturkampf che le destre postindustriali e illiberali hanno ingaggiato contro il “secolarismo” come causa di tutti i mali del presente, possa avvantaggiarsi di un’utopia capovolta, ossia quella di una società di soggetti etnicamente uniformi. In Israele tutto ciò è un autentico nonsense, posta l’estrema varietà delle origini di molti nuclei familiari così come dei tanti modi di declinare l’ebraismo, ma rimane il riscontro che una tale illusione faccia da collante ideologico alla ricostruzione identitaria di una società tumultuosa, contraddittoria, a tratti babelica, alla ricerca di un centro di gravità non occasionale. L’analisi, quindi, o riparte da questo orizzonte, in sé estremamente vischioso e poroso, oppure rischia di “stare a zero”, come le parole incomprensibili di chi ripete stanchi slogan, non importa di quale colore politico.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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