Hebraica Parashot
Noè, il diluvio e la torre di Babele

Una rassegna di commenti sulla parashà di Noach

La grande arca, gli animali a coppie, la terra coperta dalle acque e poi, dopo 40 giorni e 40 notti, la fine del diluvio, l’arcobaleno simbolo di una nuova alleanza. Noè e la sua famiglia sono i soli esseri umani a essere stati risparmiati dalla decisione divina di distruggere la terra poiché “piena di violenza”. Dopo il diluvio, la parashà continua con il racconto della maledizione di Noè sul figlio Cam che gli ha mancato di rispetto e con la storia della torre di Babele, e si conclude introducendo al lettore le figure di Abramo e Sara che saranno protagonisti della parashà seguente. Decisamente una gran quantità di elementi affascinanti, in questo brano che osserva i primi passi dell’umanità dopo Adamo ed Eva, Caino e Abele. Vediamo alcuni commenti in una breve rassegna.

“La terra era piena di violenza”: fede, scetticismo e cambiamento climatico

Cosa significa esattamente che “La terra era piena di violenza”? Prova a rispondere Daniel Bloom su My Jewish Learning a partire da alcune fonti midrashiche. Le quali, curiosamente, riportano che la malvagità della generazione prediluviana si esprimeva in una serie di meschinità tutto sommato di poco conto: “Quando un contadino portava il suo cesto di verdura al mercato, le persone vi si avvicinavano una dopo l’altra e sgraffignavano qualcosa, di per sé di infimo valore”. Messa così, potremmo concludere che Dio decise di distruggere l’umanità perché rubacchiava sedani e carote al mercato settimanale. Ma naturalmente le cose sono più complesse. Il fatto, continua Bloom, è che come sostengono altre fonti rabbiniche la ragion d’essere di questa avidità non aveva nulla a che fare con l’unica condizione che l’avrebbe resa comprensibile, ossia la scarsità di risorse: al contrario, la terra era benedetta da grande prosperità e “una sola semina dava un raccolto che bastava per quarant’anni”. L’umanità aveva troppo di tutto: e così divenne insolente e viziata. La scena del mercato assomiglia un po’ a quelle storie dei figli delle famiglie bene che si mettono a fare i teppisti perché si annoiano.

A questa situazione, si aggiunge l’importantissimo elemento del tempo. Noè ci mette 120 giorni a costruire l’arca e, scrive Rashi in suo commentario, mette in guardia contro l’imminente diluvio chiunque si fermi per via a chiedergli spiegazioni. Tra l’annuncio del diluvio e il suo verificarsi, quindi, all’umanità viene data la possibilità di cambiare. “Questa lettura della storia di Noè offre un impressionante parallelo con la nostra società nel mezzo di una crisi climatica globale”, scrive Bloom. “Nessun singolo atto contro l’ambiente ha provocato il riscaldamento della Terra; piuttosto, si tratta dell’effetto combinato di miliardi di piccole azioni intorno al globo. Similmente, il nostro benessere e la nostra facoltà di sfruttare e controllare le risorse della Terra, avendo reso possibile il livello di consumi che ha alterato l’atmosfera, sono la causa primaria della nostra distruzione. Proprio come la generazione del diluvio, le acque si stanno alzando intorno a noi, lentamente. Abbiamo ancora tempo di esaminare le nostre azioni e cambiarle (…). Nella haftarah di questa settimana, le acque del diluvio sono chiamate mei Noach, le acque di Noè, a suggerire che benché fosse sufficientemente giusto per essere salvato, Noè aveva nondimeno una parte di responsabilità per non aver fatto abbastanza per impedire la distruzione. La nostra generazione non ha l’opzione di ritirarsi dentro un’arca, però ha la possibilità, anzi l’obbligo, di impedire il prossimo diluvio”.

A queste considerazioni fa eco Rabbi Avi Killip su Patheos, un magazine per il dialogo tra religioni che ospita contributi da autori di diverse fedi. Per tornare sul discorso delle responsabilità di Noè, Rashi ci dice nei suoi commentarii che egli era un uomo di poca fede. La spia del testo biblico che gli fa trarre questa conclusione è il settimo versetto del settimo capitolo: “Noè, i suoi figli, sua moglie e le mogli dei suoi figli entrarono nell’arca, a causa delle acque del diluvio”. Non perché Dio lo aveva comandato, ma perché si era messo a piovere. Come a dire che prima, in fondo, alla venuta di quel diluvio Noè non aveva mai veramente creduto. Attraverso la storia di Noè, commenta Rabbi Killip, Rashi presenta un’inusuale concezione di fede: “Di solito intendiamo “fede” come il credere in qualcosa di positivo. “Abbi fede” e “Non smettere di crederci” sono parole pensate per essere d’incoraggiamento. Parliamo di “fede totale” quando sogniamo la venuta del Messia. Rashi ci consegna una definizione di fede completamente diversa. Qui, emunah, cioè fede, non è credere che la salvezza sia vicina, bensì il contrario. A volte la fede è credere che il peggio stia per arrivare”.

La “poca fede” di Noè assomiglia alla nostra attitudine nei confronti dei dati scientifici sulla situazione ambientale. Un po’ ci crediamo, un po’ seguitiamo a fare la stessa vita, perché magari il peggio non arriverà davvero. Ma forse, suggerisce Rabbi Killip, il dubbio fu anche ciò che permise a Noè di mantenersi razionale. Dopotutto, fede o non fede, l’ordine di costruire l’arca lo eseguì. “Quando la fede assoluta fa troppa paura e la negazione è fuori questione, Rashi ci offre una terza via: mantenere il paradosso. Noè fu capace di “credere” e “non credere” simultaneamente. Quale parte di Noè fu quella che gli permise di costruire l’arca? La parte di se stesso che credeva che il diluvio sarebbe davvero arrivato? O forse fu la parte scettica che gli permise di costruirla? Forse la fede pura, la emunah shlemah, sarebbe stata troppo travolgente e debilitante? Come Noè, anche noi siamo di fronte a una previsione spaventosa per il nostro mondo. (…) Il linguaggio della fede ci offre un posto per nasconderci dalla verità. Come Noè, molti di noi non sono del tutto pronti ad ammettere ciò che sta per accadere. Dobbiamo trovare l’equilibrio tra speranza e paura, tra fede e e scettiscismo, che ci darà la forza e il coraggio di andare avanti”.

La torre di Babele: i mattoni, le persone e il potere della lingua

L’umanità si unisce per costruire una torre che tocchi il cielo, ma Dio confonde le lingue e impedisce quindi la portata a termine dei lavori. Quella della torre di Babele è una delle storie più enigmatiche e affascinanti della Bibbia. Cosa c’era esattamente di sbagliato in quella torre? Non è una bella cosa, l’umanità che si unisce per un solo obiettivo? L’interpretazione più immediata sostiene che Dio intervenne perché la costruzione della torre rappresentava un atto di superbia. Per dirla con semplicità, rimise gli uomini al loro posto. Ma nella storia c’è di più.

Un midrash descrive le condizioni in cui i costruttori della torre, nella valle di Shinar, lavoravano. La torre era divenuta così alta che ci voleva un anno per salire in cima; se una persona cadeva e moriva, nessuno ci faceva caso, mentre se cadeva un mattone tutti si disperavano perché ci sarebbe voluto un anno per sostituirlo; alle donne incinte non era permesso interrompere il lavoro, neanche quando entravano in travaglio. Prendendo spunto da questo midrash, Rabbi Dan Moskovitz su Reform Judaism commenta: “Il grande peccato dei costruttori della torre di Babele fu che trattarono le persone come mattoni e i mattoni come persone. Gettarono via l’unica cosa che li distingueva dalle macchine, le quali se fossero esistite a quei tempi, avrebbero potuto costruire anche meglio: trascurarono la loro umanità. Quando i mattoni della nostra vita diventano più importanti delle persone che ne fanno parte, anche noi costruiamo una torre che è un affronto allo scopo della creazione”.

Un altro commento alla storia, di Carol Ochs per My Jewish Learning, prende in considerazione l’elemento lingua della vicenda. C’è un legame tra la torre di Babele e l’uso del linguaggio da parte di Noè. Prima e durante il diluvio, non lo sentiamo mai parlare. La prima volta che apre bocca è per maledire suo figlio Cam: “Le prime parole di Noah non lodano Dio, né esprimono gratitudine, e neppure chiedono aiuto o proclamano giustizia. Viceversa, Noè utilizza la lingua per maledire e per inaugurare l’amore differenziato che affliggerà tutte le generazioni della Genesi, da Ismaele e Isacco, a Esaù e Giacobbe, a Giuseppe e i suoi fratelli”.

Così, il linguaggio di Noè e quello dei lavoratori della torre è in un certo senso un’eredità della malvagità del mondo prima del diluvio. Le parole divisive, con Noè, la sua famiglia e gli animali, sono anch’esse salite sull’arca: “Il linguaggio che sopravvive alla devastazione del diluvio è quello dell’amore parcellizzato, della competizione, dell’odio, della maledizione e della vendetta. L’azione di Dio nella storia di Babele è un tentativo di riparazione attraverso la moltiplicazione delle lingue: chissà che da qualche parte, tra le nuove lingue, non emerga una visione della realtà in grado di trascendere le parole distruttive e accusatorie che sono state fatte salire sull’arca”.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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