Cultura
Omer Friedlander, o del fiabesco contemporaneo

L’esordio letteraio di un autore denso quanto delicato, come i suoi racconti, raccolti nel libro “L’uomo che vendeva l’aria in Terrasanta” (NN Editore): favole per grandi scirtte al tempo presente

Omer Friedlander è una scoperta delicata e commovente, come la sua scrittura. Nato a Gerusalemme nel 1994, cresciuto a Tel Aviv e ora di casa a New York, è alla sua prima pubblicazione, una raccolta di racconti, in Italia edita da NNeditore per la traduzione di Irene Abigail Piccinini. Si intitola L’uomo che vendeva l’aria in Terrasanta, come una delle fiabe del volume. Fiabe, sì. Perché sembrano quasi racconti da Mille e Una Notte del presente, mondi rovesciati dove la precisione è affidata alla fantasia e all’immaginazione, per lasciare il reale in una dimensione opaca e poco definita, dando alla speranza il ruolo di protagonista. Come dire che alla possibilità si lascia sempre la porta aperta. E se ogni fiaba ha una morale, o comunque un messaggio per il lettore, quelle di Friedlander parlano proprio di speranza e di possibilità: l’animo umano è imperfetto e vulnerabile, ma sa aprirsi al mondo, al “perché no” o al “proviamo”… Nulla si chiude mai in queste fiabe, nulla pare definitivo, tragico, triste, morto. Piuttosto, prevale la vita, insieme all’amore, alla fantasia e all’immaginazione.

È proprio questa capacità fantastica a creare rifugi sicuri dove andare a riposare, nel conforto di trovare la porta della speranza aperta, ancora una volta. Sono fiabe per adulti, costruite con parole precise, capaci di toccare davvero l’universo emotivo del lettore, prenderlo per mano e portarlo, per esempio ,al delfinario ormai chiuso e abbandonato, senza animali e dalle vasche vuote, insieme a Simcha. È l’uomo che vendeva l’aria in Terrasanta, capace, con la sua bambina, di intortare turisti americani in uno show dal sicuro successo, inventato da padre e figlia per intascare qualche soldo. Servirà a mangiare e poi andare appunto al delfinario a vedere le acrobazie dei delfini. Che non ci sono più, ma non nella loro straripante fantasia. Come quella che servirà a Simcha per trovare un comodo alloggio dove poter riposare una volta rimasto senza casa. «Dove dormirai» gli chiede la figlia. «Da qualche parte. All’Hilton, al delfinario, in un castello in aria. Ho letti ovunque», risponde lui. Ma l’incantesimo ormai è rotto, la figlia sta crescendo e la consapevolezza che il padre rimarrà senzatetto come già era senza lavoro, fa spazio alla preoccupazione e al discredito: «Continuava a parlare e parlare», scrive Friedlander descrivendo Simcha, «pur sapendo che lei aveva smesso di ascoltarlo – presto avrebbe smesso di credergli, esattamente come lui aveva smesso di credere a se stesso».

E poi ci sono gli aranceti di Giaffa, luoghi quasi paradisiaci per profumi e abbondanza di frutti, ma anche per quella collaborazione perfetta tra arabi ed ebrei che all’improvviso si rompe, come l’amicizia, come la lealtà. Come un non detto che si intreccia con la Storia, quella grande, quella che cambia i confini dei Paesi del mondo. E i due fratelli robivecchi, con la malinconia della perdita del padre incisa nel nastro con la sua voce che annuncia il loro arrivo per le strade della città, qualcosa come l’arrotino del nostro immaginario, invitando la gente a consegnare loro rottami che non vuole più conservare. Con la tristezza di un bambino che non abbandona mai la maschera che gli ha regalato papà prima di morire, insieme alla carica vitale di un adolescente – o poco più – che trova la vita in una festa alla discarica. Succede in Alte Sachen, racconto quasi classico, che sa di storia yiddish della modernità, con un finale a sorpresa tanto semplice da risultare straordinario. E poi si viaggia lungo le favole, si passa per una Beirut devastata dalla guerra, dove una donna affascinante che si chiama nientemeno che Sheherazade, consente a tre soldati di realizzare i propri desideri, per arrivare, infine, al campo di transito per profughi nell’Israele del 1950, con famiglie emigrate dall’Iran. Stessa storia per tutti: un campo desolato e desolante, chiuso dal filo spinato, in compagnia dell’attesa. Ma anche di una memoria antichissima di rivalità tra famiglie, tra vicini di casa. Succede a due ragazzine del campo, la cui storia riconduce alla Spagna prima della cacciata, quando i loro antenati erano miniaturisti. Le parole di Friedlander allora somigliano ai disegni dei tappeti che i loro padri tessevano in Iran e i loro antenati disegnavano sui bordi dei libri, tra foglie d’oro e colori sgargianti, per parlare di amicizia, di infanzia e di adultità. Friedlander sta lì, sempre in bilico su quel confine, come a dirci che sì, si può stare con un piede nell’infanzia, basta non trascurare mai l’arte del fantasticare. La porta da aprire al possibile si trova lì, su quel confine. E questo libro è un invito a non chiuderla mai.

Omer Friedlander, L’uomo che vendeva l’aria in Terrasanta, traduzione di Irene Abigail Piccinini, NN Editore, pp. 238, 18 euro

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


2 Commenti:

  1. Presentazione bella e delicata che invita il lettore ad acquistare il libro.
    Consiglierei però di rileggere i testi prima di postarli. L’autore è Omer Friedlander, che per qualche strano colpo di bacchetta magica nelle due ultime frasi si trasforma in Friedman.


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