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Palma de Maiorca, l’isola ebraica

Una picola comunità ebraica dalla vitalità esplosiva

Isola felice dal clima meraviglioso e le acque cristalline, Maiorca è una meta ambita dai turisti di mezza Europa e non solo. C’è chi vi giunge anche da più lontano, come Dani Rotstein, videomaker originario del New Jersey che nel 2014 è sbarcato sulla più grande delle isole Baleari con l’intenzione di staccare dalla vita newyorkese e girare qualche filmato commerciale. Ai tempi Dani non sembrava deciso a fermarsi, così come non pensava di poter trovare altri ebrei a Palma de Maiorca. È rimasto quindi molto stupito nel trovarvi una sinagoga e una piccola comunità che si riuniva il venerdì sera per le preghiere. Si trattava di un gruppo eterogeneo in cui aveva riconosciuto soprattutto ebrei trapiantati da Israele, l’America Latina e altre parti di Europa, un mix che pregava presso un tempio fondato nel 1987 da un gruppo di ashkenaziti inglesi.

Educato religiosamente, Dani aveva rinforzato la propria fede e il senso di appartenenza al mondo ebraico grazie ai campeggi giovanili ai quali lo inviavano in estate i suoi genitori, ma soprattutto nel corso di un anno passato in Israele. Al rientro a casa, non aveva dimenticato le emozioni provate in Terra Santa e aveva sviluppato il desiderio di vivere in modo pieno il proprio ebraismo. Curiosamente, avrebbe realizzato il suo sogno proprio a Maiorca, nel luogo più impensato. E non tanto per le esigue dimensioni della comunità locale, ma soprattutto perché gli sembrava che mancassero tracce di un passato più radicato e profondo. Era qui però che il giovane si sbagliava. Non solo Palma de Maiorca recava ancora nella pietra dei suoi palazzi e nei nomi delle sue vie la memoria di secoli di ebraismo, ma soprattutto perché la sua stessa storia non aveva in realtà mai visto la fine. A Maiorca gli ebrei che gli inquisitori avevano voluto annientare non erano mai scomparsi, anzi. E i loro discendenti sedevano oggi in Sinagoga accanto al nuovo arrivato.

Presenti sull’isola almeno dall’epoca romana, gli ebrei avevano qui vissuto momenti di relativa fortuna. Come quando nel 1135, durante il periodo musulmano, il conte di Barcellona Ramon Berenguer III ne aveva presi diversi sotto la sua protezione. In seguito, quando Giacomo I d’Aragona aveva conquistato l’isola, al suo seguito pare ci fossero diversi ebrei, la cui conoscenza dell’arabo risultava particolarmente utile. Tra le diverse concessioni fatte agli ebrei di Maiorca, salta all’occhio quella di un’area residenziale nella capitale di Palma, proprio accanto alla Cattedrale, la fortezza dell’Almudaina, poi conosciuta appunto come “la fortezza degli ebrei”. Con l’arrivo di altri correligionari dalla Francia e dal Nord Africa gli ebrei si sarebbero spostati in altre aree, non senza provocare malcontenti. Nel 1250, comunque, Giacomo confermò i loro diritti, in particolare dal punto di vista fiscale e con la concessione di acquisto per case e terreni. Alla sua morte, prima il figlio Giacomo II e poi il nipote Alfonso III confermarono in buona parte le politiche che favorivano la comunità.

Le cose cominciarono ad andare male con il nuovo secolo, quando nel 1305 scoppiarono rivolte antiebraiche e nel 1309 si verificò la prima diffamazione di sangue sull’isola. Nel 1314 Sancho I, figlio di Giacomo II, mantenne nei confronti degli ebrei dell’isola posizioni ambivalenti. Pesantemente influenzato dal vescovo di Maiorca, confiscò la sinagoga di Palma per trasformarla in chiesa e inflisse multe e confische alla comunità. Al tempo stesso, fece costruire una nuova casa di preghiera, anche se meno splendida della precedente, e prese gli ebrei sotto la sua protezione, spesso salvandoli dall’Inquisizione con leggi ad hoc.

I regnanti successivi si comportarono relativamente bene, concedendo diversi diritti agli ebrei ed esonerandoli dalle tasse extra alle quali erano spesso sottoposti. La loro vita sull’isola migliorò notevolmente, con lo sviluppo di una classe mercantile importante che commerciava nel Mediterraneo e l’affermazione di numerosi studiosi, spesso consulenti dei sovrani come astronomi, chimici e medici.
Tutto sarebbe precipitato con le rivolte antiebraiche del 1391. Nonostante l’iniziale protezione del governo, gli ebrei furono attaccati e uccisi dalla popolazione locale, come già stava accadendo nel resto della Spagna. Molti fuggirono in Nord Africa, altri furono costretti a convertirsi al cristianesimo. Nel 1435 la fiorente comunità ebraica di Maiorca cessò ufficialmente di esistere e quando l’Inquisizione iniziò a operare sull’isola, nel 1488, si trovò di fronte solo a conversos che praticavano la religione cattolica. Vi furono comunque centinaia di processi e altrettante esecuzioni, tra cui spicca quella che nel 1691 portò all’assassinio di 37 persone che nel 1688 avevano tentato di fuggire in barca. Molti degli ebrei di Maiorca, però, riuscirono a scampare agli inquisitori restando a vivere lì dove erano nati. I conversos delle Baleari rappresentano infatti un caso a sé stante.

La loro scoperta ha cambiato le sorti non solo di Dani Rotstein, ma anche della stessa comunità maiorchina. Innanzi tutto, qui non si parla di conversos ma di chuetas. Il termine è il corrispettivo catalano di marranos, parola castigliana con la quale si indicavano in modo dispregiativo gli ebrei convertiti in quanto “mangiatori di maiale”. Qui un chueta, che può essere tradotto anche come “pancetta”, è un ebreo che non solo ha ufficialmente abbandonato i riti della sua antica fede, ma abbraccia in maniera plateale quelli della nuova. E con questi anche gli usi alimentari, primo tra tutti il consumo di carne suina. Ecco allora che queste persone cucinavano e mangiavano costolette e salsicce proprio sull’uscio delle proprie case. Queste stesse abitazioni erano riunite in uno stesso quartiere che i nuovi cristiani non potevano comunque abbandonare, così come non potevano partecipare, nonostante l’evidente conversione, alla vita civile. Tra le imposizioni, date dalla legge ma anche dai costumi e dai pregiudizi dei locali, c’era anche quella di sposarsi tra loro, in quanto i cristiani non volevano imparentarsi con quelli che consideravano comunque ebrei. Questa situazione di discriminazione e segregazione sarebbe durata ufficialmente fino alla fine del Settecento, perdurando nei fatti almeno fino alla metà del Novecento. Sulla carta cristiani, i discendenti dei chuetas sono oggi circa 18mila e sono tuttora riconosciuti perché portano uno dei quindici cognomi riconosciuti di derivazione ebraica. Tra questi, accanto a Cortès, Fortesa o Pinya, c’è anche quello di Mirò, tanto che si pensa che lo stesso Joan, il celebre pittore e scultore catalano, avesse appunto origini ebraiche.

Visti con sospetto sia dai cristiani sia dagli ebrei che non li riconoscevano come propri correligionari neppure dopo la conversione, i chuetas hanno iniziato a rivendicare i propri diritti e soprattutto la loro vera appartenenza religiosa solo di recente. Tra i casi più eclatanti c’è quello del rabbino Nissan ben Araham, nato Nicoals Aquilo a Palma nel 1957. Dopo avere scoperto a 10 anni di essere un chueto, a 21 anni era emigrato in Israele dove si era convertito ufficialmente diventando poi rabbino. Nel dicembre 2010 è stato inviato come emissario a Maiorca, primo converso di origine spagnola a prestare servizio come rabbino in Spagna, anche se purtroppo non a Palma. Attualmente la città non ha infatti un rabbino e tutte le attività della piccola comunità locale, a cui partecipano abitualmente una quarantina di persone, tra cui una dozzina di chuetas, sono gestite da una manciata di volontari.

Vive ancora a Palma invece Toni Pinya, di professione cuoco e oggi uno dei due chuetas che fanno parte con lo stesso Dani Rotstein del consiglio di amministrazione della Sinagoga. Toni aveva sempre saputo che i suoi antenati erano ebrei e anni fa ha scelto di convertirsi e di tornare alla sua antica fede andando in Israele e quindi tornando a vivere nella propria amata isola, dove si è sposato con Francisca Maria Oliver Valls, anche lei chueta.
Tornando a Dani, la scoperta dei chuetas è stata a sua volta alla base di una rivoluzione personale. Forte di uno spirito di intraprendenza non comune, e dotato di un entusiasmo contagioso, il giovane ha capito che Maiorca sarebbe diventata la sua Israele. Innamorato di una ragazza non ebrea del posto e deciso a formare con lei una famiglia ebraica, inserita in un contesto religioso di condivisione, scambio e crescita, ha trovato nei chuetas i suoi compagni di viaggio ideali. Lavorando su più fronti, l’uomo ha da una parte approfondito la storia del passato ebraico di Maiorca e di Palma in particolare, dall’altro quella dei suoi antichi abitanti costretti alla conversione. Ha sfruttato le proprie competenze in campo cinematografico per realizzare un documentario, intitolato Xuetas Island ossia l’isola dei chuetas, in cui racconta la storia ebraica di Maiorca e quella dei suoi abitanti che hanno scelto di riabbracciare l’ebraismo. Il filmato ha fatto il giro dei principali festival ebraici internazionali, dove è stato apprezzato dalla critica e ha acceso l’interesse per questa comunità misconosciuta anche dagli stessi ebrei.

Accanto all’attività di regista e produttore, Rotstein ha intrapreso anche quella di guida turistica, dando vita nel 2019 a Jewish Mallorca, agenzia che si occupa di accompagnare le persone attraverso le vie dell’antico quartiere ebraico di Palma e di fare conoscere i luoghi ebraici dell’isola. Di persona e in streaming, dato che nel frattempo era arrivata anche la pandemia, Rotstein ha guidato e continua a guidare i turisti lungo le vie e negli edifici che ancora testimoniano il loro passato ebraico. Tra tutti spiccano Carrer de Monti-Sion e l’omonima chiesa costruita dai Gesuiti nel Cinquecento su un’antica sinagoga. La guida non manca mai di segnalare una fessura su un muro esterno dell’edificio che si pensa consumata dai chuetes che vi facevano scorrere le mani in segno di ricordo. Vengono poi ricordati i luoghi di culto scomparsi nelle vie San Alonso e San Bartolomeo. La pittoresca Carrer Sol viene indicata come la via principale della vita ebraica, mentre Calle de Plateria, la strada dei negozi d’argento, è ancora fiancheggiata da gioiellerie in parte gestite da discendenti di famiglie chuetas. Per non parlare poi del Carrer del Call, che in catalano significa ghetto e che ne rappresentava probabilmente la strada principale. Oltre alla sinagoga di Carrer de Monsenyor Palmer 3, costruita dagli inglesi nello scorso secolo, il sempre sorridente Dani conduce anche a quella che era considerata la chiesa degli ebrei, ossia Santa Eulalia, in Plaça de Santa Eulàlia, 2. Qui centinaia di persone erano entrate ebree per uscirne cristiane, continuando poi a frequentarla in tutte le feste comandate. In queste occasioni si racconta che i conversos fossero facilmente distinguibili perché, nell’ansia di dimostrare la propria nuova appartenenza, pare partecipassero in maniera particolarmente coreografica alle celebrazioni.

Gli impegni dell’americano non si limitano però alle attività professionali. Ormai sposato e padre di un bambino, è anche responsabile della sede locale di Limud, organizzazione di volontariato nata in Gran Bretagna e con sedi un po’ in tutto il mondo. Dani e la moglie (nel frattempo convertita all’ebraismo) hanno fondato Limud Mallorca anche con un occhio ai chuetas discriminati dagli altri ebrei, per portare “la cultura e la vita ebraica agli ebrei sconnessi che vivono sull’isola, alle famiglie di matrimoni misti e a quei non ebrei interessati a conoscere e connettersi con i valori e la storia ebraici”. Il gruppo organizza proiezioni di documentari, presentazioni di libri, concerti corali, conferenze, seminari, celebrazioni festive e cene di Shabbat comunitarie in ristoranti vegetariani in tutta l’isola.

A proposito di ristoranti, gli ebrei che giungono a Maiorca possono contare su Dani e sulla Comunità Ebraica locale anche per sapere dove mangiare. Chi vuole preparare da sé i propri pasti può acquistare alimenti kosher, tra cui carne proveniente da Malaga e vini certificati, presso il piccolo negozio aperto il martedì pomeriggio presso la Sinagoga, dove ha sede anche la Comunidad Judia de le Illes Balears. Chi invece preferisce mangiare fuori, detto che di ristoranti kosher ancora non ce ne sono, va però segnalata una interessante selezione di locali che offrono cucina vegetariana e mediorientale. Tra questi vale la pena di fare un salto da Santosha, che offre una cucina israeliana e mediterranea ecologica con uno stile fresco ed eclettico. Nel fascinoso quartiere di Santa Catalina, vicino al porto, è possibile mangiare piatti tipici vegani come i classici felafel e l’hummus del Simply Delicious in Carrer d’Annibal, mentre per comprare una pita all’israeliana si dovrà uscire dal centro e fare un salto alla Mana Pan Pita Israeli Pita Factory, in Calle Can Calafat 27. Chi si allontana dalla capitale per un giro dell’Isola potrà infine vivere l’incanto della cittadina costiera di Port de Sóller dall’alto della terrazza sul tetto del Bikini Island & Mountain Hotel. Qui si mangia la cucina israelo-orientale del primo ristorante Neni  aperto in Spagna.

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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