Cultura
Parlare di Israele e Palestina su Instagram

Bellezza, potere e dannosità delle infografiche sulla piattaforma social in un articolo della rivista americana Alma

Sarà che il magazine di cultura ebraica Alma parla ai più giovani, sarà perché è americano, sarà perché ha un occhio veramente attento alle piattaforme di social media, ma i suoi articoli al riguardo hanno sempre modo di catturare la nostra attenzione. E questa volta ci cattura un articolo su Instagram e il conflitto israelo-palestinese scritto da Emily Burack, collaboratrice di Alma e soprattutto responsabile dell’account instagram del magazine . L’autrice parla in prima persona e si rivolge ai lettori, per lo più giovani, ponendo l’accento su un fatto: Instagram è una delle principali fonti d’informazione, grazie alle infografiche che vengono postate e condivise.

Tutto ha avuto inizio con l’omicidio di George Floyd nel maggio 2020: da quel momento, scrive Emily Burack, “il mio feed non ospitava più selfies e foto della colazione, ma era pieno di informazioni sul razzismo sistemico, luoghi per esprimere solidarietà, e una costante condivisione di risorse. Da allora, un certo tipo di slideshow infografico ben progettato è diventato onnipresente sulla piattaforma”.

Cambia il modo di comunicare e di informare, cambia il modo di condividere opinioni e di divulgarle. “Ho visto in prima persona il potere che questi slideshow sulla giustizia sociale hanno nel trasmettere informazioni critiche e aumentare la consapevolezza”, continua Burack. Che però mette in guardia da un linguaggio sintetico, forse insufficiente a capire davvero le problematiche sottese a quegli schemi accattivanti: “Le infografiche hanno un valore reale nel portare l’attenzione su un problema, ma non dovrebbero mai essere l’unico modo per comprendere appieno un argomento. E quando si tratta di uno dei conflitti più difficili e complessi del mondo, che si è sviluppato nel corso di migliaia di anni, un’infografica da sola non è sufficiente”. Eppure, sembra che per molte persone, i social media siano diventati una fonte unica per tutto ciò che riguarda la politica, espressa, appunto in questa forma visiva e schematica, pronta per essere condivisa. Il pericolo è chiaro: se manca un’adeguata informazione sull’argomento, si rischia di condividere e amplificare notizie errate o addirittura islamofobiche o antisemite. Si rischia quindi di passare, inconsapevolmente, dall’essere dei paladini della giustizia civile a propugnatori dell’odio.

E se l’argomento riguarda proprio il conflitto israelo-palestinese, è facilissimo scivolare nell’errore: “Improvvisamente, persone che non avevano mai pensato molto a Israele o alla Palestina o agli ebrei o ai musulmani sentono la pressione di postare qualcosa, di condividere un’infografica nella loro storia, come per piantare una bandiera e dire, questo è il mio posto. E anche per gli ebrei che hanno riflettuto su questi temi, può sembrare opprimente. Se il detto è “due ebrei, tre opinioni”, allora quando si tratta di Israele, farei una modifica: due ebrei, tre miliardi di opinioni. Scommetto che ci sono tante persone ebree (me compresa!) che non hanno postato una sola cosa – forse per paura di dire la cosa sbagliata, di non sapere abbastanza, di essere etichettati come ebrei “cattivi”, di diecimila cose diverse”.

Cercare di capire Instagram significa trovare una chiave d’accesso per capire un’intera generazione, quella dei millennials o generazione Z. E nel farlo si possono stabilire punti di contatto intergenerazionali interessanti. Per esempio per sottolineare che l’estetica non fasempre rima con informazione corretta: una bella infografica non è necessariamente anche valida. E la storia non è riducibile a dieci slide. “Le infografiche possono essere un modo prezioso per avvicinarsi al problema. Sono dei punti d’accesso e dei costruttori di consapevolezza“, scrive Emily Burack. “Ma se è la prima volta che si vede/pensa/parla davvero di qualcosa, è meglio non fare affidamento esclusivo su queste. Usatele come un punto di partenza per leggere di più. Controllate due volte chi le ha create, e se vi fidate di quelle fonti. Seguite gli account che condividono prospettive diverse. Leggete interi libri sugli argomenti. E non prendete le notizie da una sola fonte”. E poi conclude: “È onorevole alzare la voce, chiamare gli abusi dei diritti umani con il loro nome ed esprimere dolore e solidarietà, ma prima di condividere qualsiasi cosa, occorre istruirsi sull’argomento. Occorre continuare a imparare“.


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