L’importanza dell’individuo nella dichiarazione universale. Intervista a Marcello Flores d’Arcais
Universale, particolare. Sì, perché per avere valore ovunque, a qualsiasi latitudine e in qualunque contesto sociale, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo deve rivolgersi all’individuo. È l’uomo il portatore dei diritti sanciti in questo scritto, che è chiamato a rispettarli a prescindere dalle appartenenze (politiche, etniche, di genere…) che lo coinvolgono a più livelli, da quello etico a quello politico. Dunque, l’universalità della dichiarazione è garantita dalla sua particolarità. Ne abbiamo parlato con Marcello Flores d’Arcais, storico e docente all’Università degli studi di Siena e direttore del master in Human Rights and Genocide Studies.
Partiamo dall’inizio, la Dichiarazione nasce sulle ceneri dei Trattati di Versailles che si ponevano l’obiettivo di proteggere le minoranze, per esempio gli ebrei, ma senza ottenere il successo sperato.
“La difesa delle minoranza era al centro di quei trattati, ma si era pensato di tutelarle lasciando ai singoli stati la sovranità assoluta. E questa è la ragione per cui non hanno avuto il successo sperato. Quello che succede con la Dichiarazione Universale è un superamento della sovranità nazionale. Esistono a questo punto della storia le Nazioni Unite che fanno da garante, come una sorta di ente superiore. Ma c’è una grave mancanza in questa dichiarazione e riguarda l’autodeterminazione dei popoli: quando venne scritta esistevano ancora le colonie. Però è proprio grazie alle norme sancite nella Dichiarazione Universale che i popoli cominciano a lottare per la propria indipendenza. Ma attenzione: la leva, è sempre l’individuo”.
Cioè?
“La caratteristica della Dichiarazione Universale sta nel modo in cui individuo e società entrano in relazione. Quasi tutti gli articoli iniziano con “Ogni persona”, ma dal 22esimo, il primo del gruppo sui diritti economici e sociali, è scritto “Ogni individuo come membro della società”: per la prima volta i diritti civili e politici, cioè individuali sono affiancati da quelli economici e sociali, cioè relativi, appunto, alla società. Le due realtà si compenetrano. E questo è un fatto molto importante che venne discusso dalla commissione grazie al rappresentante cinese Peng Chung Chang. La sua richiesta era di introdurre nella dichiarazione elementi della tradizione confuciana. La discussione partì dal primo articolo, in cui era scritto “ogni individuo dotato di coscienza” . Il Cogito ergo sum della cultura occidentale dominava la dichiarazione a scapito delle altre culture. Peng Chung Chang voleva che venisse considerata la parola cinese Ren, intraducibile con un singolo vocabolo, che significa io ma in rapporto con almeno un’altra persona. Dunque nel suo io è contemplata l’umanità in un discorso di relazione. Fu proprio grazie al suo intervento che negli articoli successivi, quelli appunto relativi ai diritti sociali ed economici, venne aggiunta la specifica di individuo come membro della società. Un dettaglio molto importante”.
Perché?
“Perché considerare l’individuo, nel suo essere universale, protegge tutti gli individui. Ma considerarlo membro della società in cui vive, costringe gli Stati a riconoscere la Dichiarazione Universale. Anche se poi nella realtà le divisioni e le differenze restano, tanto è vero che tutte le convenzioni successive sono specificazioni di quel anybody che scandisce gli articoli della Dichiarazione. Lo stesso accadde nella Rivoluzione Francese: venne scritta la carta dei diritti dell’uomo, ma le donne sentirono il bisogno di specificare i propri. Il compito delle convenzioni, infatti, è quello di obbligare lo Stato, cioè ogni singolo stato che aderisce alla convenzione, ad applicare quelle norme”.
Se dovessimo scriverla oggi, cosa scriveremmo nella versione attuale della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo?
“Senz’altro un articolo sull’autodeterminazione dei popoli e uno sull’ambiente. È un diritto collettivo che all’epoca non sembrava da proteggere, perché si comincia ad averne percezione negli anni ’70, fino ad arrivare all’urgenza contemporanea. E poi credo andrebbe ridimensionato il ruolo affidato alla famiglia. Cioè, andrebbe ampliata la definizione, anche se è grazie alla dichiarazione del ’48 che è stato possibile andare avanti verso una legislazione delle unioni civili e omosessuali. Come il diritto all’identità, per esempio donna, italiana, cattolica… l’identità è nell’elenco delle non discriminazioni ammesse proprio per lasciare libertà di esistenza a qualsiasi identità”.
Quello di identità è un tema molto attuale e delicato.
“Infatti, va ben calibrato. Le faccio un esempio. Si discute se togliere la parola razza dalla Costituzione Italiana proprio perché non esiste una razza. Ma occorre fare i conti con il razzismo, dunque con chi crede nell’esistenza di questa categoria. Il Tribunale internazionale in Ruanda stabilì che se per il difensore non esistevano due razze diverse, ma gli Hutu avevano condotto una guerra proprio su una presunta distinzione tra le etnie, era corretto parlare di razza, nella misura in cui andava punito l’effetto di quel pensiero. Cioè, usare il termine razza in quel contesto metteva in chiaro la natura del crimine commesso, anche se non esiste una razza”.