Cultura
Perché continuare a studiare la storia

Riflessioni (e proposte) per promuovere la conoscenza del passato, a partire dalla decisione di eliminare la traccia di storia all’esame di maturità

L’abolizione della traccia di storia alla maturità del 2019 ha fatto molto discutere. Temo il piagnisteo, un vecchio vizio molto italiano. Meglio provare a riflettere con rigore e anche con un po’ di ironia.

Dino Messina, intervenendo su “Sette” del 25 ottobre, si è chiesto se siamo ignoranti in storia e, se sì, per quale motivo. L’articolo proseguiva proponendo vari argomenti di discussione.
Uno di questi parte dalla riflessione di uno storico, Stefano Pivato che in anni non sospetti (eravamo nel 2007) richiamava l’attenzione sulla trasformazione del nostro rapporto con la conoscenza del passato (espressione che preferisco a «storia») fino a presentarsi così diradato da essere, nei fatti, inconsistente. Vuoti di memoria (Laterza) si intitolava quel libro. 144 pagine sapide e che andavano diritto al tema.
E la conclusione di Pivato era questa: l’Italia è un paese piatto che dice di voler riflettere sulla propria storia, ma che fa finta. Un paese in cui il confronto con il passato è solo retorica, chiacchiericcio, comunque sguardo dal buco della serratura. Una dimensione dove conta il particolare, il pettegolezzo, oppure la discussione sui massimi sistemi. Ma dove non c’è la consapevolezza che discutere di storia significa confrontarsi con tecniche e dotarsi di metodologie; che una cosa sono i fatti e una cosa come si ordinano nella testa degli individui, nelle memorie sociali. Bene, dieci anni dopo che fa il governo? Decide che della storia si può fare a meno e dunque si può declassarla. Più precisamente: l’idea (e forse anche la convinzione) è che la costruzione di una consapevolezza critica sul passato è inutile, perdita di tempo.

Le ragioni dell’abolizione
E tuttavia quella decisione, per non trasformare il dissenso in protesta morale, deve farsi carico di alcuni dati importanti che per certi aspetti la supportano. Li ha richiamati all’attenzione, opportunamente e giustamente Erica Picco di Laboratorio Lapsus, un’associazione di giovani storici che propone percorsi di approfondimento, studio ed elaborazione di materiali e strumenti per la didattica della storia.

Il primo è un dato reale: la traccia di storia per il tema non ha riscosso un successo tra gli studenti. Dati imprecisi, spesso locali, comunque non estendibili a tutto il territorio nazionale parlano di percentuali costanti al di sotto di numeri a due cifre, e spesso più prossime allo 0 che non a 9. Dunque, numeri alla mano, la traccia di storia non ha mai riscosso quel consenso o quell’interesse che molti ritengono debba avere. Anche per questo, si potrebbe dire, non c’è stata una grande ribellione, prima di tutto da parte degli studenti, e in secondo luogo degli insegnanti rispetto alla decisione di abolirla. In breve, il declassamento dipenderebbe dal fatto che «a decidere è il mercato».

Il secondo elemento invece è molto più significativo e, forse, ci aiuta a individuare dove stia una parte, rilevante, comunque significativa, non solo della decisione, ma soprattutto del brusio che ha suscitato.
Ripercorrendo velocemente i profili della traccia di storia, Erica Picco sottolinea come il problema della traccia di storia fosse essenzialmente la discrasia tra temi di approfondimento e programmi svolti. Questo secondo aspetto indica un problema reale, profondo, e che provo a sintetizzare così: esiste da tempo un disagio nella didattica della storia, un disagio che nasce da due blocchi di questioni.

Il problema della didattica: costruire memoria
Il primo blocco riguarda fino a quale anno deve arrivare l’insegnamento curriculare della storia. È l’annosa questione dell’insegnamento che si ferma al massimo alla Seconda guerra mondiale e che anni fa qualche ministro ha creduto di risolvere riparametrando la divisione del profilo della storia insegnata, dedicando al Novecento l’ultimo anno dell’insegnamento superiore.
Poteva apparire una soluzione, solo che per affrontare i temi del Novecento non basta costruire un manuale che arrivi fino al nostro presente. Per farlo occorrono delle metodologie, e soprattutto delle modalità della didattica che non ci sono. O che, anche quando ci sono, non costituiscono la formazione primaria del docente di storia.
Perché questo fosse possibile, occorrerebbe pensare a strutturare l’insegnamento della storia in varie direzioni.

Il primo problema riguarda come si formano competenze che si rivolgono ai veicoli della didattica della storia che includa conoscenza delle fonti e dunque percorsi di formazione che mettono al centro la ricerca.
Ma poi, e qui sta il secondo blocco di questioni, non si tratta solo della ricerca, si tratta di praticare, per poter insegnare, una sensibilità alla mediazione culturale che mette al centro i molti linguaggi che costruiscono sapere: e dunque, non solo la storia evenemenziale, i documenti, gli archivi, ma anche le forme della narrazione, la capacità di scrittura, lo storytelling, che non è solo raccontare, ma imparare a usare le tecniche della narrazione.
Il terzo aspetto riguarda come si costruisce una lezione di storia, con quali percorsi, favorendo o meno quale partecipazione, trasferendo e utilizzando quali competenze (tecnologiche, e non solo documentarie). Un percorso possibile è dato dagli Episodi di Apprendimento Situato (EAS) intorno a cui in questi anni ha lavorato Enrica Brichetto. Il metodo EAS prevede di individuare un determinato argomento a partire dal quale costruire una lezione interattiva, anche grazie alla tecnologia di cui le scuole e i singoli studenti dispongono. L’idea di base è quella di un sapere che si costruisce progressivamente e in modo collaborativo: il ruolo dell’insegnante è più quello di programmare e coordinare il lavoro che non quello di trasmettere dei contenuti.
Oppure si possono considerare altre esperienze di didattica della storia, dove entrano in campo la formazione, la costruzione del percorso verso la cittadinanza. Per esempio tutto il lavoro didattico intorno ai viaggi di memoria. Penso alle esperienze proposte dall’associazione Deina che hanno come mete i percorsi delle trincee della Prima guerra mondiale, Auschwitz, Berlino ricostruita, i Balcani. Tutti quei luoghi, cioè, in cui si sono espresse le crisi di civiltà del Novecento, la cui visita implica non tanto un viaggio, quanto la costruzione di una sensibilità in cui il punto di partenza corrisponde al principio «condividere un futuro per la memoria» e non, alla rovescia, rintracciare il passato per non dimenticare.

L’immaginario complottista

Il quarto e ultimo aspetto esula dalla scuola, e riguarda il senso comune sulla storia che circola in Italia, in questo 2018. È tornato in campo con forza un immaginario complottista che crede che lo studio della storia consista nel rovesciamento di ciò che appare e vede la scoperta del vero come conquista faticosa da strappare a presunti padroni delle nostre vite che hanno il compito di schiavizzarci. È un profilo che ha una lunga storia culturale e politica e che come pratica, da almeno un millennio, ha l’obiettivo di motivare alla criminalizzazione, persecuzione, e molto spesso allo sterminio (parziale o totale) del nemico costruito (perfido Robinson) che si collocherebbe in mezzo tra noi (ingenui Venerdì) e il raggiungimento della felicità.
È un processo che non è mai stato innocente e che ha il suo vangelo nei Protocolli dei savi di Sion. È un profilo che ha spesso prodotto antisemitismo e razzismo, ma che non si nutre solamente della costruzione dell’ebreo come nemico. Per questo è scarsamente rilevante quale sia la posizione dei complottisti.
Come hanno ampliamente argomentato e dimostrato Pierre Andrée Taguieff, Norman Cohnn, e in Italia Carlo Ginzburg, Cesare G. De Michelis, la macchina testuale vive indipendentemente dalle prove che produce perché corrisponde a un bisogno, quello della costruzione del nemico. E il bisogno è la possibilità di produrre un racconto semplice, lineare, coerente, e soprattutto consolatorio della storia per poter sopportare le amarezze nei tempi bui, incerti del presente.
Ovvero quando rispetto alla domanda di capire di più, per poter avere strumenti culturali, mentali, e disciplinari più amplii e articolati e far fronte con razionalità alle questioni che il presente pone, si risponde, invece, con la semplificazione, la retorica, l’ideologia consolativa della ricerca del capro espiatorio.
A questa richiesta e quando si propone quest’offerta ideologizzata non serve la traccia di storia: non è che l’esito di un percorso inesistente di formazione critica, di sensibilità non costruita.
Anche per questo si potrebbe dire, la scomparsa della traccia di storia è sembrata la fine di un incubo, più che l’annullamento di un percorso di formazione. Appunto perché non c’era progetto di formazione, o comunque non si è mai pensato di fare della formazione e di dare delle opportunità di costruire competenze per la formazione.

David Bidussa
Redazione JOI Mag

Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.


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