Cultura
Perché Israele torna a votare (e l’Italia rischia di fare altrettanto)

Le ragioni di un dissesto politico

Tutto da rifare. I partiti non riescono a mettersi d’accordo su nulla; il premier non ha più una maggioranza. Si torna a votare, a settembre. Non è l’Italia (almeno per ora) ma è Israele. Il 29 maggio scorso, a meno di due mesi dall’apparente “grande vittoria” alle urne, Bibi Netanyahu ha dovuto gettare la spugna. Impossibile formare una coalizione di governo, nessun’altra scelta se non quella di invocare nuove elezioni. Dallo scenario virtuale del primo ministro più longevo di sempre si è passati in fretta ad un’altra prima assoluta: quella di una Knesset sciolta ancora prima di iniziare a lavorare. Uno scenario impensabile fino a poche settimane fa persino per la vulcanica democrazia israeliana.

Che cos’è successo? Forse che il Likud, e con esso molti osservatori, avevano sottovalutato due banali, ma incontrovertibili dati di fatto. Numericamente, che la vittoria di Bibi non era poi così stratosferica, ma ad alto tasso di dipendenza dai promessi alleati. Politicamente, che le richieste di incriminazione in arrivo contro di lui per frode e corruzione – al di là di ogni tentativo di allontanarne il pensiero o la stessa realizzazione – pesano sul futuro della sua leadership come una spada di Damocle. Una doppia debolezza fiutata invece dal navigato Avigdor Lieberman, l’ex fedelissimo diventato leader del partito “concorrente” a destra Israel Beitenu. Nel tentativo ai limiti dello Stato di diritto di Netanyahu di garantirsi l’immunità da ogni futuro giudizio (ricorda qualcosa?), Lieberman ha intravisto la carta della disperazione del suo ex principale e l’assist ideale per sferrare il contrattacco da tempo atteso.

Il grimaldello che ha fatto saltare la coalizione

Pretesto perfetto per mettere all’angolo Bibi e rendergli impossibile formare un nuovo governo: la leva obbligatoria anche per gli studenti delle yeshivot. Tema altamente “divisivo”, come si dice, e assai popolare tra la vasta popolazione laica di Israele (compresa quella parte che vota a destra). La richiesta di Lieberman di includere nella piattaforma di governo una legge che definisca il numero di giovani religiosi da reclutare ha funzionato come il grimaldello perfetto per “svitare” l’ingranaggio apparentemente perfetto della coalizione incentrata sul Likud. Battaglia esaltante per gli elettori di Israel Beitenu, richiesta irricevibile per i partiti religiosi. Soluzione del puzzle impossibile: tutti alle urne, dunque, il prossimo 17 settembre.

La vicenda, come evidente, è esplosa attorno a un nodo eminentemente israeliano: quello dell’obbligo del servizio militare per tutti i giovani cittadini e della frattura sempre più lacerante laici/religiosi. Eppure riecheggia in maniera sorprendente lo scenario che si potrebbe aprire da un momento all’altro anche a Roma e dintorni: quello di un voto anticipato di cui nessuno tra i cittadini – e perfino tra gli stessi leader – sembra avere alcuna voglia, ma che diventa all’improvviso lo scenario “obbligatorio”, l’unico possibile per trovare nuova aria.

leggi anche: La Knesset si è sciolta. Nuove elezioni per Israele

Cos’abbiamo fatto per meritarcelo? Nulla, ma scontiamo – ad Est come al centro del Mediterraneo (e oltre) – i frutti di due trend piuttosto “deprimenti” della democrazia del 21esimo secolo.

Il tramonto delle ideologie

Primo, la polarizzazione. Democrazia significa certo battaglia delle idee, degli interessi, delle priorità: scontro e confronto senza esclusione di colpi come metodo per giungere alla presa di decisione della maggioranza. Ma presuppone un grado minimo di “civiltà”, di riconoscimento delle posizioni degli altri e della loro legittimità a portarle avanti. Possiamo dire che la ricetta sia ancora seguita a dovere? In America Trump ha dettato chiaramente la linea, impostando l’intera sua presidenza come un attacco e una delegittimazione costanti della fetta della popolazione, e di establishment, a lui avversa. Ma anche in Italia l’odio e lo scherno hanno corroso ormai stabilmente il discorso pubblico: come stupirsi dunque, ad esempio, del vicolo cieco in cui si è improvvisamente reso conto di essersi ritrovato il Movimento 5 Stelle, dopo aver fondato per anni la sua ascesa sul dileggio e sull’insulto di tutti gli avversari, ben più che sui progetti di gestione della cosa pubblica? Quanto a Israele, la polarizzazione politica pare in maniera perfino più diretta il riflesso di una società fiorente ma cronicamente frammentata tra le sue tante identità. In queste condizioni, al momento del dunque del governo, i partiti si trovano sempre più risucchiati dalla loro stessa propaganda, dal livore che hanno sparso, incapaci di mettere da parte l’ascia per trovare sintonie e punti di compromesso e dedicarsi a ciò che davvero conta, ossia tradurre i voti in risorse per dare risposte alle esigenze dei cittadini che li hanno espressi. Ma così si rompe il trampolino stesso della democrazia, e l’effetto sulla fiducia in essa rischia di essere deleterio.

Secondo, e per assonanza, la benzina della politica. È triste dirlo, ma nazionalismo, sovranismo o populismo di contorno che sia, il carburante primario della vita pubblica si riduce a essere lo stesso a tutte le latitudini: il più feroce cinismo (per fugare ogni dubbio si veda ciò che è accaduto in Austria, altro Paese rispedito in fretta e furia alle urne a settembre dopo che il leader dell’ultradestra di governo è stato “pizzicato” a promettere appalti pubblici in cambio di fondi occulti al suo partito). Tramontate tutte le ideologie – il populismo, come si vede, non è affatto una di queste perché di per sé “vuoto” e opportunista sul piano ideale – la politica si ritrova governata dalla legge della giungla. Mors tua vita mea. Conta emergere, conquistare il consenso, la connessione magica col popolo: il resto viene dopo. Bene i programmi, i progetti, le convergenze, dunque. Ma quando si sente la debolezza della preda, sia essa l’avversario o il proprio temporaneo alleato, si azzanna, per farla fuori e andare oltre. Se la legge sarà rispettata anche alle nostre latitudini, nonostante i rituali della rassicurazione, il governo italiano ha le settimane contate.

 

Simone Disegni
Collaboratore

Politologo di formazione, giornalista di professione, si occupa in particolare di politica italiana ed europea. Già impegnato nel lancio del festival Biennale Democrazia a Torino e del think-tank ThinkYoung a Bruxelles, lavora per Reset e Good Morning Italia e collabora con altre testate nazionali.


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