Cultura
La proprietà privata e le leggi razziali del 1938: una mostra

Oltre 6.300 fascicoli raccontano i sequestri subiti dagli ebrei piemontesi e liguri. Ne parla Fabio Levi, storico e curatore dell’esposizione

Ci sono strumenti normalmente riservati agli storici che quando vengono esposti al pubblico hanno un effetto abbastanza interessante. Il più classico, e spesso anche il più efficace, è l’archivio. Contiene i documenti originali di una particolare epoca e aprirlo al pubblico significa consentirgli di affacciarsi alla finestra di quella quotidianità, in un tempo che non è più.

A farlo questa volta è la città di Torino che inaugura una serie di mostre capaci di raccontare gli effetti dell’applicazione delle leggi razziali sulla popolazione, a partire dalle sue istituzioni. Un modo per raccontare l’universale dal particolare: Torino e il Piemonte sono al centro delle ricerche, come parte rappresentativa del tutto – Italia, attraverso gli archivi locali.

In particolare, Le case e le cose. Le leggi razziali del 1938 e la proprietà privata, mostra un lavoro minuzioso quanto prezioso messo a punto dallo storico Fabio Levi sui sequestri dei beni ai danni degli ebrei in Piemonte e Liguria. L’Istituto San Paolo di Torino era incaricato per conto dell’EGELI, l’Ente Gestione e Liquidazione Immobiliare del governo fascista, di applicare le nuove leggi e procedere ai sequestri in queste regioni. Tutti i documenti che raccontano con precisione inventari ed espropri conservati dall’Istituto, sono stati poi digitalizzati e archiviati dalla Fondazione 1563. Ma Fabio Levi se ne occupa, da storico, dagli anni 90. E ora quel materiale, catalogato e suddiviso per temi, parla di sé, pronto a mostrare come funzionava quel meccanismo.

“Il ricavato delle vendite di quei beni sarebbe servito a risarcire le vittime della guerra, causata dagli ebrei. Era questo il modo per rendere plausibili gli espropri secondo la propaganda fascista”, spiega Fabio Levi, “La propaganda antisemita si sviluppava su due binari. C’era una parte improvvisata, quasi raffazzonata perché il fascismo non era pronto a sostenere una campagna contro gli ebrei, in un’Italia che non aveva, a differenza della Germania, un retroterra di discriminazione. Poi però c’erano i fatti: la gente vedeva sparire gli ebrei. Li vedeva espellere dagli uffici pubblici, dalle scuole, li vedeva poi privati dei beni. Insomma, assisteva alla pretesa governativa dell’applicazione delle leggi e dell’adeguamento alle direttive. Il fascismo puntava a condizionare il comportamento delle persone ed è riuscito nel suo intento”.

Cosa prevedeva la legge? “Gli ebrei, catalogati nell’agosto del 1938 con un precisissimo censimento, avevano l’obbligo di denunciare i propri beni, quindi l’EGELI, per mano dell’Istituto San Paolo in questo caso, doveva appropriarsene, sequestrarli, confiscarli e poi venderli. C’era la guerra, dunque le ultime due operazioni risultavano piuttosto complicate da portare a termine, ma l’obiettivo, da raggiungere nel più breve tempo possibile, era il sequestro. Così a disporre dei beni erano le autorità, che riscuotevano gli affitti in essere, oppure li assegnavano ad altri”.

E le cose, tutto ciò che era contenuto in quelle case? “Sono andate sostanzialmente perdute. Non c’era controllo e chiunque si sentiva autorizzato a mettere mano a quel che trovava. In molti casi i mobili sono stati ammassati nei depositi dell’Istituto e inventariati insieme agli immobili, ma spesso anche durante i trasporti c’erano delle razzie”. Bisogna poi distinguere due momenti storici. Nel 1939, quando la legislazione razziale inaugura l’attuazione delle norme sull’appropriazione della “quota eccedente”, cioè di quanto superava la soglia minima calcolata moltiplicando un coefficiente fisso per le rendite catastali, era prevista un’eccezione: gli ebrei discriminati, cioè coloro che avevano ottenuto particolari riconoscimenti pubblici, spesso in seguito al loro impegno durante la Prima Guerra Mondiale, erano esentati dai sequestri. Tutto cambia dopo l’8 settembre del 43. “A quel punto venne abolita qualsiasi differenza: a tutti veniva sottratto tutto e la destinazione era la deportazione”, continua Levi.

Ci sono state delle restituzione dei beni confiscati agli ebrei, una volta terminato il conflitto? “Quel meticoloso e preciso lavoro di catalogazione dei funzionari dell’Istituto ha permesso di farlo. In gran parte gli immobili confiscati sono stati restituiti alle famiglie, quando c’era qualcuno che potesse ritirarli, o all’Unione delle Comunità Israelitiche, grazie a una lunghissima trattativa con lo Stato. Ma è tutto merito dei funzionari piemontesi, così precisi e meticolosi. Altrove, dove il compito di confiscare era affidato alle prefetture, si è perso molto. In ogni caso, il processo di restituzione fu lungo: l’EGELI fu chiuso nel 1957 ma la liquidazione terminò nel 1997”.

Ma questa è una prima fotografia. Tra le righe di quei documenti poi si ritrova la vita delle persone, quella quotidiana, ma anche affettiva; quella prospettica, legata all’immaginazione di un prossimo futuro verosimile per i propri figli e nipoti e quella valoriale. Perché i beni sottratti agli ebrei sono qualcosa che definisce la loro persona, un modo di sentirsi integrati nella società. Non solo: “La loro sottrazione comportò anche razzie improvvise, vendite imposte in condizioni di forza maggiore, atti di sopraffazione compiuti da funzionari e privati cittadini”, dice ancora Fabio Levi. Nei documenti si trovano le prove, insomma, del ruolo delle amministrazioni pubbliche, che nel loro rapporto quotidiano con la vita degli individui hanno reso irrevocabile la politica razziale fascista.

La mostra Le Case e le cose. Le leggi razziali del 1938 e la proprietà privata è aperta fino al 31 gennaio 2019 alla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo, a Torino.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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