Il menu di Purim non si basa sui soli cibi fritti e varia nei suoi piatti e ingredienti, di comunità in comunità, con nette differenze tra sefarditi e ashkenaziti
Se Purim deve il suo nome al tirare a sorte, dal termine pur, i riti che vi sono collegati non potevano che essere di augurio per un esito favorevole di tale sorteggio. Sorprendentemente, proprio a partire da questo elemento, c’è chi collega la festa dell’euforia e del sovvertimento con il suo opposto, Yom Kippur. A ricordarlo tra gli altri è Gill Marks, che attribuisce alla tradizione mistica ebraica questa lettura. Così come il crudele Haman aveva gettato i dadi per decidere il giorno in cui gli ebrei sarebbero stati sterminati, così nell’antica cerimonia di Yom Kippur il sacerdote nel Tempio tirava a sorte per decretare quale sarebbe stato il capro espiatorio. Un’altra interpretazione, offerta da My Jewish Learning, accosta le due ricorrenze ritenendole le facce della stessa medaglia. Da una parte la rinuncia a tutti i piaceri del corpo per raggiungere l’elevazione spirituale, dall’altra l’esaltazione proprio di quei piaceri, dal divertimento nel fare festa, riunirsi e travestirsi a quello della tavola, quindi mangiare e bere fino quasi a stordirsi. Entrambi i comportamenti sarebbero un modo per onorare il Divino.
Non potendo approfondire ulteriormente questo pur affascinante aspetto della questione, ci limiteremo qui a guardare a una sola faccia della medaglia, quella che riguarda appunto le allegre celebrazioni del 14 di Adar. Quest’anno la festa cade tra il 6 e il 7 marzo e non coincide quindi con quella cristiana del Carnevale, ma lo scarto è minimo, appena un paio di settimane. Può capitare così che qualcuno faccia confusione tra le ricorrenze, tanto da chiamare Purim il Carnevale ebraico. Facile è anche confondere i dolci tipici delle celebrazioni che precedono la Quaresima con quelli che ricordano lo scampato pericolo per gli ebrei. La cosa è evidente soprattutto a Venezia, dove sia la tradizione del Carnevale sia quella ebraica hanno un’importanza particolarmente forte. E se per la prima festa il fritto regna sovrano, con galani e compagni che invadono con il loro profumo di fritto calli e campielli, anche per Purim è d’uso consumare dolcetti dorati nell’olio.
Non sono questi però la sola specialità del momento. Se è vero che il dolce è di fondamentale importanza nelle celebrazioni di metà Adar, è anche vero che le simbologie sono tante, e non mancano di influenzare anche il resto del menu di festa. Tra i precetti del giorno, il pasto di Purim non si basa ovviamente sui soli cibi fritti e varia nei suoi piatti e ingredienti di comunità in comunità, con nette differenze tra sefarditi e ashkenaziti. Vi si possono però individuare dei temi portanti, che toccano sia il dolce sia il salato. Partendo dal secondo, non è raro che si festeggi mangiando carne, trattandosi pur sempre di un ingrediente considerato di lusso, ma motivi pratici e simbolici portano ad altri cibi. La festa cade infatti in un periodo dell’anno in cui gli animali non sono ancora pronti per la macellazione ed è quindi preferibile guardare altrove. Un altrove giustificato anche dalla storia stessa di Ester, che non potendo rivelare la propria ebraicità a corte ma neppure tradirla a tavola, si racconta si cibasse di semi e di verdure.
Ecco allora che oltre ai comuni ortaggi scelti sulla base della latitudine e delle disponibilità locali, emerge l’uso dei legumi secchi, dai fagioli ai ceci alle lenticchie e le fave, disponibili tutto l’anno. C’è poi un altro tipo di seme che non è un legume ma che ricopre un’importanza fondamentale nella dieta ebraica in genere e nelle celebrazioni di Purim in particolare. Parliamo del seme di papavero, apprezzato soprattutto presso le popolazioni del nord, dove costituisce tra l’altro anche un prodotto a chilometro zero, e dalla simbologia legata anche al nome tedesco e yiddish. Mohn infatti non richiama soltanto nella pronuncia il termine che indica la manna, ma anche il nome del cattivo della storia, Haman. A questo punto la domanda sorge spontanea: che si mangi qualcosa che richiama il dono di Dio agli ebrei è comprensibile, ma perché ricordare qualcuno che invece li voleva sterminare? Un dubbio simile nasce anche nel guardare a molti dei piatti, dolci e non solo, che caratterizzano questi giorni: dalle tasche alle orecchie di Haman alla corda con la quale è stato impiccato fino agli omini di pan speziato che lo rappresentano o i kreplach triangolari che dovrebbero ricordarne il cappello. Tutto si baserebbe sull’uso antico di celebrare la sconfitta del nemico annientandone la raffigurazione così come i diversi oggetti o i capi di vestiario a lui collegati.
Alla luce di ciò si comprendono allora i dolcetti più tipici di Purim, ossia gli Hamantaschen, triangoli di pasta frolla diffusisi inizialmente presso gli ebrei tedeschi, farciti tradizionalmente con semi di papavero e solo in un secondo tempo con confettura di prugne. Dal nome che fa riferimento alla tasca, simbolo anche del denaro che il corrotto funzionario maneggiava, alla forma triangolare, che una lettura antistorica ha collegato erroneamente al cappello del funzionario, fino al loro originario ripieno, tutto rendeva questi pasticcini perfetti per Purim. Da servire a familiari e ospiti o da regalare ai vicini come previsto dai precetti del giorno. Un’altra delle caratteristiche che rende gli Hamantaschen adatti per Purim è il fatto di accogliere un ripieno. Questo per definizione si trova seminascosto dentro a un involucro, in questo caso la frolla, e avrebbe più di un riferimento al Libro di Ester. Il più immediato è il fatto che anche la moglie del re persiano vivesse nascosta a corte, il più raffinato collega la farcitura occulta al nascondimento di Dio, che non viene mai nominato nel testo né apparentemente fa miracoli, ma è sempre presente e riconoscibile da chi lo sa cercare e vedere. Un’altra spiegazione vuole infine che l’intera scrittura sia ricca di intrighi, sotterfugi e segreti e che quindi anche i cibi che ricordano i fatti narrati debbano comprendere qualche complicazione…
Spostandoci più a sud, tra gli ebrei sefarditi si trova un altro dolce, fritto come quelli che imperversano nel Carnevale veneziano e italiano in genere. Parliamo di quelle che oggi sono conosciute come orecchie di Haman e che già in un testo di cucina moresco pubblicato in Andalusia nel XIII secolo compaiono con il nome arabo di udhun, orecchio. Si trattava di dolcetti di pasta fritta farcita con mandorle e pistacchi, che gli ebrei avrebbero poi adottato e trasformato in strisce di pasta fritte e poi passate nel miele o nello sciroppo di zucchero. La forma di queste frittelle richiamava quelle di un orecchio, da ciò deriverebbe il nome oznei e, una volta diventate il dolce tipico per Purim, quello di oznei Haman. La prima registrazione del nuovo termine risale al 1550 e compare in una commedia ebraica italiana scritta in ebraico da Judah Leone Ben Isaac Sommo di Mantova. Si tratta della più antica commedia ebraica esistente, ispirata al Midrash e alla commedia italiana e prodotta proprio per una celebrazione di Purim. A questo proposito vale la pena ricordare che anche la tradizione di travestirsi da Ester, dal cattivo Haman e dagli altri protagonisti della storia, tanto simile all’abitudine carnascialesca, sarebbe a sua volta un’eredità della commedia dell’arte italiana e dei suoi animatori mascherati diffusasi poi presso le comunità ebraiche.
Tornando ai cibi di Purim, e tralasciando le bevande, rigorosamente alcoliche e servite in abbondanza, si può ora fare un ultimo rapido excursus sulle usanze alimentari meno note. Nell’Encyclopedia of Jewish Food Marks ricorda che presso le comunità sefardite era in uso servire per Purim dei piccoli pani ripieni di uova cotte, un polpettone di carne chiamato sambousek, pollo in umido e riso con ceci. Presso gli ashkenaziti, invece, oltre ai già citati krepalch in brodo la tradizione torna alle simbologie già analizzate e punta su un lungo challah intrecciato chiamato koyletsh che vorrebbe ricordare la corda alla quale era stato appeso Haman seguito da knishes, pollo arrosto e cavolo ripieni.
Passando in Persia, cibo tradizionale è un riso pilaf dolce chiamato shirin polo, delle polpette di pollo e ceci (gundi), delle frittate (kuku) e l’halva. Presso gli iracheni troviamo dei panzerotti di ceci, mentre i rumeni propogono i ceci zuccherati. Nonostante qualche timida incursione nel salato, comunque, la dolcezza regna sovrana, tanto che presso i musulmani Purim è noto come Id-al-Sukkar, ossia la “festa dello zucchero”. Oltre ai dolci citati, ecco allora che tra i sefarditi vanno forti dolcetti intrisi nello sciroppo come la baklava, i travados (cornetti di pasta frolla farcita) e i ma’amoul (biscotti ripieni). Gli iracheni preparano dei biscotti al cardamomo e mandorle chiamati hadgi badah e in tutta l’Asia Centrale vanno forti gli halva di grano, mentre i greci apprezzano un particolare budino di semolino. E se dei biscotti tedeschi già abbiamo parlato, vale la pena ricordare anche il kugel di riso con uvetta dei rumeni e un’usanza polacca che soddisfa non solo l’esigenza di dolcezza ma anche quella di alcolicità. Si tratta della shikkera babka, cioè la babka ubriaca, sorta di babà al rum preparato inzuppando il tipico dolce intrecciato con uno sciroppo a base di rum, whisky o brandy.
Gundi
Ingredienti per 18 pezzi
1 kg di polpa di pollo macinato
480 g di farina di ceci tostata
2 cipolle dorate
1 uovo
1 cucchiaino di cardamomo macinato
1 cucchiaino di curcuma in polvere
1 cucchiaino di cumino macinato
1 mazzetto di prezzemolo
2 l di brodo di pollo
4 grosse patate
480 g di ceci cotti
1 cucchiaio di concentrato di pomodoro (o di succo di limone)
sale
pepe
Sbucciare e tritare le cipolle e tritarle con le foglie di prezzemolo, poi mescolarle con la polpa di pollo, la farina di ceci, l’uovo e le spezie, unendo l’acqua necessaria a ottenere un composto morbido ma non appiccicoso. Coprire e lasciare rassodare in frigo per 3 ore, poi modellare l’impasto in palline piuttosto piccole usando le mani inumidite.
Sbucciare le patate e tagliarle a tocchi, poi tuffarle in una casseruola con il brodo mescolato con il concentrato o il succo di limone e un pizzico di curcuma. Cuocere per 20 minuti, poi aggiungere i gundi con i ceci e cuocere a fiamma bassa per altri 30-40 minuti regolando alla fine di sale e pepe. Servire caldo.
Ma’amoul
Ingredienti per 26 pezzi
Per la pasta:
480 g di farina bianca
240 g di farina di semola fine
240 g di burro chiarificato
1 cucchiaio di acqua di fiori d’arancio o acqua di rose
burro
sale
Per il ripieno:
400 g di noci, mandorle pelate o pistacchi tritati finemente
180 g di zucchero
1-2 cucchiai di acqua di fiori d’arancio o acqua di rose
1-2 cucchiaini di cannella in polvere
zucchero a velo
Per la pasta, riunire in una larga ciotola le farine con una presa di sale, poi unirvi il burro morbido tagliato a pezzetti e impastare velocemente con la punta delle dita fino a ottenere un composto di briciole.
Unire l’acqua di fiori d’arancio o di rose e lavorare ancora aggiungendo a poco a poco circa 120 ml di acqua tiepida. Formare una palla con l’impasto, avvolgerla nella pellicola da cucina e lasciarla riposare a temperatura ambiente per 2 ore o, meglio ancora, per una notte.
Per il ripieno, riunire tutti gli ingredienti indicati in una ciotola e mescolarli, poi coprire e mettere da parte. Riprendere l’impasto, dividerlo in palline e schiacciarle al centro in modo da formare una cavità. Farcirla quindi con un cucchiaino di ripieno e richiudere la pasta tutto intorno.
Disporre i biscottini così preparati sulla placca imburrata o foderata con carta da forno e appiattirli leggermente. Decorarli quindi in superficie con una forchetta o con un coltello.
Cuocere i ma’amoul in forno già caldo a 180 °C per circa 20 minuti, poi sfornarli, lasciarli riposare per 1 minuto e farli raffreddare su una gratella prima di spolverizzarli con lo zucchero a velo.