Hebraica
Purim, una “terapia della gioia”

Condividere, scherzare e sbeffeggiare la paura. Perché Purim “fa bene”

“Purim è una festività che mi intimidisce. 
Posso gestire le giornate serie, di studio e introspezione; i giorni di digiuno e di lutto mi risultano accessibili – sono sempre in grado di trovare un motivo per sentirmi triste. 
Ma Purim e Simchat Torah sono due festività che trovo scoraggianti. Ci si aspetta da me che io sia gioioso, felice ed esuberante. Ma come faccio a diventarlo? Non ho mica dentro di me un rubinetto di gioia che posso aprire per sole 24 ore!”
. Le perplessità espresse dall’utente anonimo sul sito dei Chabad di Mineola (NY) sono condivisibili. A Purim, non solo è richiesto di esprimere e provare gioia, ma anche di farlo per più di due settimane di fila: “Mi she nikhnas Adar marbim be simkhà – Da quando inizia il mese di Adar si deve aumentare la propria gioia” (Talmud, trattato di Ta’anit 29a). 
Il periodo che stiamo vivendo, da un anno a questa parte, ci impone di limitare il contatto con i nostri cari e di astenerci dai soliti festeggiamenti esuberanti in maschera: ciò rende la richiesta di essere gioiosi più difficile da esaudire del solito.

Possiamo comprendere come mai gli ebrei di quell’epoca si sentissero così felici: il decreto che prevedeva il loro sterminio fu ritirato, i loro nemici furono puniti e Haman impiccato con la stessa forca che aveva fatto preparare per Mordechai. Ma cosa dovremmo provare noi ebrei, oggi, ricordando quegli eventi di 2500 anni fa?

Un tempo per ogni cosa…
Rabbi Israel Salanter, rinomato talmudista dell’800, ha scritto che un bravo ebreo è colui che riesce ad avere tutte le qualità umane e anche i loro opposti. La Torah offre un’ampia gamma di emozioni sperimentabili, esiste “un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare” (Ecclesiaste 3,4). Purim è il tempo per ridere e per ballare, è la ricorrenza che ci permette di vivere gli accessi e dare libero sfogo alla nostra gioia interiore: si festeggia in grande stile e si gioisce per il lieto fine della storia raccontata.
D’altronde, “nell’ebraismo la gioia è la massima emozione religiosa” sottolinea Rav Jonathan Sacks z.l. in una lettera tradotta da Roberto Zadik. La storia ebraica è fatta di grandi dolori, di profondi dispiaceri, ma nei Salmi ciò che emerge dietro la sofferenza è il sentimento di gioia e gratitudine, che ogni ebreo dovrebbe dimostrare tutti i giorni: solo coloro che conoscono la fragilità e l’instabilità della vita possono apprezzarne appieno il valore, e riconoscere la bellezza in ogni dove e l’impronta del Creatore in ogni cosa.

Purim… fa bene!
Purim è una festività da celebrare “ad dlo yada – finché non si riesce più a distinguere” l’oscurità dalla luce. In un articolo, Rav Sacks sostiene che il popolo ebraico durante il mese di Adar prova una gioia ben diversa da quella generata dalle piccole soddisfazioni quotidiane, perché è “terapeutica” e aiuta a superare un trauma.
La ferita da guarire è sotto gli occhi di tutti: da un giorno all’altro gli ebrei di Persia si sono trovati a far fronte comune contro un editto in cui veniva chiesto che “si distruggessero, si uccidessero, si sterminassero tutti i Giudei, giovani e vecchi, bambini e donne” (Esther 3, 13). Di fronte a ciò non si può che provare paura e una sensazione di vulnerabilità, ancora oggi conservate nella memoria storica dell’ebraismo. Questa reazione è naturale, ma straordinario è il modo in cui gli ebrei hanno risposto sul lungo periodo: hanno superato quel ricordo angoscioso con l’ilarità, hanno sublimato la memoria di quel momento grazie ai festeggiamenti di gruppo, dimostrando che la gioia è l’antidoto più efficace contro la paura.
 A tal proposito sono emblematiche le parole di Mariane Pearl sul terrorismo, vedova del giornalista rapito e decapitato in Pakistan nel 2002: “Il terrorismo è un’arma psicologica. Ti impedisce di concepire il mondo come tuo. Ti inibisce nel relazionarti agli altri. Genera paura e disprezzo. L’unico modo per combattere il terrorismo da cittadino è respingere quelle emozioni.. L’unica cosa che il terrorista non si aspetta è la mia felicità. E questa è la vera rivincita”.

L’unione fa la forza
Rav Sacks z.l., nella stessa lettera citata prima, spiega che nel testo biblico la differenza tra la felicità e la simchà (gioia) si esprime nel tema della condivisione: la felicità è un’emozione che fa parte di una sfera individuale, la gioia sarebbe invece da spartire con il prossimo. Del resto, scrive Rabbi Harold Kushner nel suo libro Conquering Fear, “i sociologi, studiando le religioni delle società primitive, hanno concluso che le prime forme di religione sono state create non tanto per connettere le persone a Dio quanto per connetterle ad altre persone”.
Beth Kissileff su Tablet Magazine spiega che nell’ottica della condivisione della gioia possono essere lette tutte e quattro le mitzvot (comandamenti) di Purim: bere e consumare un pasto abbondante, in compagnia di amici e parenti, insegna ad abbassare per un giorno le difese e a non aver paura del mondo che ci circonda. Scambiarsi i mishloach manot (cesti con doni alimentari) è un modo per rispondere con i fatti all’accusa di Haman che definiva gli ebrei come dispersi e divisi. La Tzedakà (beneficenza) rappresenta il tentativo di assicurarsi che ciascuno possa trascorrere la festa con dignità. E, in ultima battuta, la mitzvà di leggere la Meghillà di Esther è un rituale il cui potere risiede soprattutto nella possibilità di avere un’esperienza di lettura condivisa.

Per il prossimo anno ci auguriamo di poter tornare ai consueti festeggiamenti e ai party smodati, di poter condividere la gioia di Purim con chi amiamo e di poterci prendere gioco della paura e dei nostri nemici. 
La storia può continuamente sfuggire al nostro controllo, ne siamo consapevoli, ma è la reazione agli imprevisti che fa la differenza: dobbiamo sempre considerare i sentimenti positivi non solo come scelte possibili ma come ciò che ci permette di onorare la realtà sfaccettata in cui viviamo e il suo Creatore.

Alessandra Sabatello
collaboratrice
Alessandra Sabatello ha 28 anni e vive a Roma. Ha una laurea in lettere e una passione per tutto ciò che è organizzabile e pianificabile (eventi, viaggi, progetti..). Per quattro anni ha lavorato nel mondo delle fiere librarie ed è una dei tre inquilini della Moishe House di Roma.

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