Hebraica Nizozot/Scintille
Quale messianismo? Una domanda ebraica

Un viaggio tra le teorie più interessanti circa l’arrivo del messia. Da Maimonide a Levinas

Il tema del messianismo o semplicemente del messia: chi sia, come e quando appaia nella storia, la sua duplice funzione di ‘re di Israele’ e di pacificatore universale, è uno dei più ebraici ma anche uno dei meno ebraici che si possa concepire. Il giudaismo rabbinico ha imparato, nel corso della propria esistenza (e resistenza), a farne a meno, nel senso che gli ebrei possono tranquillamente vivere una buona vita ebraica senza alcun messia; ma ogni volta che si dice ‘messia’ è a Israele che si pensa, come contesto teologico-politico nel quale e a partire dal quale comprendere quell’idea. Dunque non è sbagliato avviare la riflessione da qui, dalla constatazione che l’idea di messia (e di messianismo, come sua elaborazione e applicazione storica) è un’idea ebraica, essenzialmente ebraica. I paradossi non di meno rimangono.

Ecco un esempio: nel 1863 Shmuel David Luzzatto, noto come Shadal, uno dei più autorevoli rabbini italiani ‘moderni’, pubblica a Trieste le sue Lezioni di teologia dogmatica israelitica: non dedica al tema del messia neppure un paragrafo! Undici anni dopo, nel 1874, un altro significativo studioso ebreo, allievo dei rabbini livornesi Abramo Barukh Piperno ed Elia Banamozegh, David Castelli – oggi quasi dimenticato, ingiustificatamente – pubblicava con Le Mounnier a Firenze un erudito volume dal titolo Il Messia secondo gli ebrei, opera sistematica che ben compete con i lavori dei più famosi Joseph Klausner (Ha-ra’yon ha-meshichì be-Israel, ossia “L’idea messianica in Israele”, apparso a tel Aviv nel 1950) e Gershom Scholem (che il tema messianico ha esplorato a più riprese, sebbene faccia testo soprattutto L’idea messianica nell’ebraismo, tr. it. presso Adelphi 2008, apparsa in tedesco sui Quaderni di Eranos nel 1959). Assente ma mai dimenticata, usurpata ma sempre rivendicata, rivoluzionaria eppur regolata, l’idea di messia – con il monoteismo e l’etica dei profeti – è uno dei grandi contributi offerti dall’ebraismo all’evoluzione della cultura occidentale. Che sia così, è riprovato dal triste fatto che gli antisemiti attribuiscono al popolo ebraicio anche gli effetti degli abusi, dei cattivi usi di quell’idea, mentre altri non ha mai accettatto che Israele detenesse la chiave, il senso più vero, del messianismo religioso. Ovvio che la competizione con il cristianesimo – che tradotto dal greco altro non significa che ‘messianismo’ – sia stata un problema serio per il giudaismo, per due millenni. Ma del messia, in termini ebraici, si può parlare del tutto a prescindere da questa competizione.

Negli anni Sessanta il filosofo francese Emmanuel Levinas, anche sulla base degli studi di Scholem, ha rivisitato il tema rileggendo alcune pagine del Talmud babilonese, Sanhedrin 97b-99a, nelle quali alcuni maestri sono presentati in un’accesa discussione sui tempi della venuta del messia e sui caratteri propri di questa personalità, o meglio sulle caratteristiche che il messia deve avere per essere riconosciuto come tale. L’editrice Morcelliana di ricente ha riproposto in volumetto questa riflessione levinasiana (a cura di Francesco Camera), che era già apparsa nel volume di saggi sull’ebraismo Difficile libertà (a cura di Silvano Facioni, Jaca Book 2004). Ciò che colpisce in queste pagine, e che Levinas sottolinea, è il fatto che già i maestri del Talmud avevano individuato due tendenze, due correnti messianiche: una apocalittica e massimalista, per così dire, che vede nel messia un inviato divino che miracolosamente interviene nella storia quando Dio vuole e che cambia i connotati della società e dell’esistenza umana; in questa prospettiva non c’è che da sperare che Dio lo invii “presto, ai nostri giorni”, dato che noi poco si può fare per affrettarne la venuta: quando le sofferenze del mondo e di Israele avranno toccato il fondo, Dio interverrà con il suo messia… è la posizione di Shmuel, amoraita babilonese di prima generazione, come il suo collega e ‘oppositore’ Rav. Quest’ultimo propende per una tesi diversa: il messia viene se noi facciamo uno sforzo per farlo venire, se facciamo teshuvà e ci impegniamo in comportamenti morali degni e meritori. Per dirla con Levinas, la discussione, che in Sanhedrin è complessa e ricca di citazioni, verte sulla questione se la venuta messianica sia condizionata (Rav) oppure incondizionata (Shmuel) dall’iniziativa umana.

E’ una discussione teologica e antropologica di prim’ordine, dove le divergenze si attenuano e di fatto convergono sul fatto che la venuta del messia sia comunque ‘storica’ e non ‘metafisica’, che incida cioè sull’esistenza del popolo ebraico (e dell’umanità) nell’orizzonte di questo mondo, nell’olam ha-zè, e non appartenga all’olam ha-bà, al mondo futuro. Nessuno ha chiarito tale punto meglio del Maimonide, nel suo Commento alla Mishnà (il Pereq cheleq, sul cap. XI del testo mishnico di Sanhedrin, tradotto in italiano da Rav Giuseppe Laras) là dove spiega la sentenza di Shmuel: “Tra il mondo di oggi e l’epoca messianica non vi è altra differenza che la fine del giogo delle nazioni, della violenza e dell’oppressione politica [sul popolo ebraico]”. Secondo il Rambam, “nei giorni del messia nulla cambierà nella realtà – ossia la storia resterà quella che è – se non il fatto che Israele avrà la propria sovranità [non soggiacerà più al governo di nazioni straniere]”. Per Maimonide l’età messianica compie la storia ma ne fa parte, non è metastorica; inoltre il messia ha la missione di liberare Israele dal ‘giogo delle nazioni’, riportandolo in eretz Israel affinché ricostruisca il Tempio e possa studiare Torà e osservare tutte le mitzwot. Nient’altro: non ‘redime il mondo’, non ‘salva le anime’, non farà giacere insieme lupo e agnello come sognato dai profeti. Ecco perché si parla di ‘minimalismo messianico’ della posizione maimonidea.

A ben vedere, si tratta di un approccio rabbinico teso a riportare il messia nei ranghi della spiritualità e della prassi halakhica. Il messia non è colui che abolisce la Torà, ma colui che la compie e permette a tutti di compierla osservando tutte le mitzwot, soprattutto quelle che concernono la terra di Israele, che sono state neglette nel tempo a motivo del lungo esilio di Israele. Far tornare il popolo nella sua terra è precondizione per l’osservanza di tutta la Torà. Ecco il critero: se il messia riesce in quest’impresa, è riconoscibile come messia autentico, se non riesce – o contraddice questo scopo halakhico – è chiaramente un falso messia. Da qui l’ambivalenza di giudizio sul valore messianico del sionismo.
Tale criterio maimonideo non deve sorprendere: il giudaismo, ci hanno insegnato maestri del calibro di Joseph Soloveitchik e Yeshayahu Leibowitz, è essenzialmente halakhà e l’halakhà si occupa di tutto: dalla vita sessuale alla macellazione degli animali kasher che consumiamo, dal riposo sabbatico alle regole del lutto, dalla costruzione della sukkà al ghet con cui divorziamo… perché non dovrebbe regolare anche il messia, la politica o le nostre aspettative messianiche? Dove si parla di messianismo, infatti, è sempre in agguato una certa tentazione antinomica, il rischio cioè che “in nome del messia” si dichiari superato ora questa ora quella norma halakhica, se non addirittura l’intera Torà (è quel che ha fatto l’antico messianismo chiamato cristianesimo, ma anche il moderno messianismo shabbatiano nel XVII secolo). D’altra parte, come ha spiegato Scholem, l’idea messianica tende a far vivere gli ebrei in un continuo ‘differimento’, sempre ‘in attesa di’ – lo studioso di qabbalà l’ha definito “il prezzo del messianismo” – quando esso diventa un mito o un’utopia sovrumana o un ideale metastorico, che tuttavia si vuole vedere attuato nella storia. Il messianismo diviene così foriero di derive o fughe ora nello spiritualismo ora nel fondamentalismo. L’halakhà maimonidea in materia aiuta a tenerlo a bada; certo lo razionalizza ma al contempo lo mantiene vivo come ‘valore ebraico’, valore tra valori, né assoluto né abrogabile. In fondo Emmanuel Levinas ha tentato di fare la stessa operazione, nei turbolenti anni Sessanta parigini, ricordando che di utopie o di messianismi abbiamo bisogno per vivere ma che di utopie e di messianismi fuori controllo si può anche morire.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


2 Commenti:

  1. La spiegazione è chiara. L’anelito resta vivo. Non sovvertitore o svalutatore della Halakhà ma in evoluzione e comprendente il mondo, serbando e rinnovando Israele con lume perenne.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.