Cultura
Quando la politica si rifugia nella “caverna” per non affrontare la realtà

La pandemia ha svelato tutti i limiti di chi governa evocano complotti, dimenticandosi che la vera politica implica mediare tra le proprie idee e le necessità reali. Senza assolutismi…

Ci sarebbe da chiedersi perché, nell’immagine che una parte della stampa estera dà dell’Italia, il nostro Paese ne esca di questi tempi piuttosto rinfrancato. Al netto degli stereotipi e dei tanti cliché che comunque mai difettano, ultimamente diversi mezzi di comunicazione si esprimono infatti con minore asprezza verso la nostra situazione. Più che un giudizio politico, che ovviamente muta a seconda delle inclinazioni e delle sensibilità di chi esterna una valutazione di merito, il tratto che le accomuna è comunque l’idea che per parte nostra si sia riusciti a gestire con una certa ragionevolezza gli effetti, altrimenti dirompenti, della pandemia. Almeno fin qui. In autunno, poi, si vedrà. Mentre in altre nazioni, già da adesso le cose sembrano andare diversamente. Non nel migliore dei modi, per intendersi.

Di certo, i tanto decantati “modelli” (ovvero, quei criteri di condotta identificati a prescindere con specifici paesi, i quali offrirebbero da subito migliori competenze in virtù di una loro indiscutibile superiorità competitiva, come nel caso di una parte del Sud-est asiatico o del Nord d’Europa) non hanno funzionato. Quanto meno, non come ci si attendeva. Smentendo, in tale modo, l’idea che dinanzi ad un evento come quello pandemico esistano dei percorsi definiti a priori, pertanto preferibili a prescindere. È peraltro un’abitudine tutta italiana quella del “parlarsi addosso”, ovvero del dire male di sé, svalutandosi a priori.

La questione che, tuttavia, è emersa come fondamentale, e che continua ad imporsi, è il modo con il quale si intenda trattare la realtà dei fatti. Soprattutto quand’essa risulti sgradevole, tale perché non coincidente con le nostre aspettative. Così come confusa e quindi difficilmente prevedibile nei suoi effetti di lungo periodo. Ci piace pensarci come soggetti raziocinanti ma, più spesso, ci riveliamo fortemente emotivi. Max Weber, uno dei massimi sociologi della contemporaneità, distingueva, rispetto all’agire umano, l’etica dell’intenzione da quella della responsabilità. Nel primo caso, l’individuo (o il gruppo) si comporta rifacendosi perlopiù ai convincimenti propri, ritenendo che essi rivelino non solo il diritto ma – piuttosto – la necessità storica di imporre la propria volontà, a prescindere dal suo concreto impatto e dagli esiti sul resto della collettività. In altre parole: “le mie idee sul mondo sono comunque ben fondate; non necessitano di altro risultato che non sia il loro applicarle”. Se i risultati dovessero rivelarsi negativi, allora si potrà dire che ciò non dipenda dall’inefficacia, dall’inadeguatezza, dalla manchevolezza dei propri presupposti bensì da un qualche deficit altrui. Non sono le idee che si hanno sul mondo ad essere incoerenti o inefficaci; semmai è il mondo a rivelarsi incoerente rispetto all’incontrovertibile fondamento dei propri presupposti.

Nel secondo caso, invece, prioritario è l’anticipare consapevolmente quanto possa derivare dalle proprie condotte rispetto al resto della collettività, rispondendo ad essa con il massimo della chiarezza e non rifuggendo eventuali colpe, laddove queste dovessero sussistere. Anche qui, semplificando, si potrebbe dire: “poiché ciò che io penso del mondo non coincide con il mondo medesimo ma con una idea che ho di quest’ultimo, è bene che, di volta in volta, quando agisco in mezzo alle persone, mi confronti con esse e, non di meno, con gli effetti delle mie scelte su di loro”. Mutando i comportamenti, qualora questi possano risultare dannosi per gli altri. Non necessariamente per solidarismo ma per necessità di cooperazione.

Entrambi i sistemi di condotta, che rispondono a principi profondi, non solo di ordine morale ma anche psicologico, relazionale e così via, sono tanto più pronunciati quando ad essere chiamati in gioco sono individui che hanno il potere di determinare l’andamento della vita di altri individui, se non di intere collettività. Intenzioni e responsabilità, infatti, hanno sempre a che fare con l’effettiva capacità, da parte di uno o più soggetti, di imporre, con o senza il consenso altrui, la loro volontà. In un sistema democratico una tale condotta non è necessariamente coercitiva, derivando semmai dal presupposto stesso per cui se si governa, si deve decidere anche per nome e per conto altrui. In base ad un mandato revocabile, si intende. Sarebbe una surreale insensatezza – infatti – credere che ognuno possa scegliere per sé, sempre e comunque. Se così fosse, altrimenti, si rischierebbe di distruggere quotidianamente ciò che resta della società. Che è invece il prodotto di continue mediazioni tra conflitti di interessi e d’identità, che debbono trovare, di volta in volta, un punto di sintesi.

Generalizzando al massimo, l’etica dei principi, spesso richiama il riferimento non ad una morale universale, ad un’etica condivisa, bensì all’autoaffermazione. Chi la fa propria, infatti, quasi sempre, ritiene di essere depositario di una consapevolezza a prescindere. La quale deve affermarsi, costi quel che costi. In genere, una tale disposizione d’animo si accompagna alla disposizione aggressiva all’imposizione. Se non alla prevaricazione. L’etica delle responsabilità, invece, riconosce il fatto che ogni scelta vada ponderata sulla base delle sue effettive ricadute. Altrimenti, si rischia di produrre troppi danni. Poiché la coesione sociale è un bene troppo importante per essere messo costantemente a rischio.

Il vero divario che intercorre tra intenzioni, intese come una sorta di assoluto, e responsabilità, che misurano invece gli effetti delle scelte, è il rapporto che si intrattiene con la realtà. Che è, a sua volta, una costante mediazione tra l’idea che ci si fa delle cose e dei fatti della vita, e con essi di se stessi, ed esperienza concreta, quotidiana degli “altri” da noi medesimi. Recita al riguardo l’Enciclopedia Treccani: «in psicologia, l’acquisizione del senso della realtà  è un processo evolutivo fondamentale di integrazione fra i dati dell’esperienza esterna e quelli dell’esperienza interiore. I relativi disturbi possono giungere fino alla prevalenza assoluta dei prodotti della fantasia e dei disturbi percettivi, e alla fuga dalla realtà, vera e propria negazione del mondo esterno».

In un mondo globale, dove l’orizzonte delle cose (e delle persone) risulta senz’altro più complesso e sfuggente di quanto non lo fosse anche solo nel passato recente, la tentazione di rifugiarsi in un atteggiamento individualista, che identifica la realtà stessa con il profilo della propria persona, è andato accentuandosi. Sul piano politico, ne è derivata una nuova generazione di élite (peraltro anagraficamente poco o nulla giovani, a volte convertitesi dal vecchio liberalismo a nuove forme di azione collettiva, basate sul richiamo all’identità, al perimetro della “sovranità”, alla difesa di alcuni principi fondamentali che, molto spesso, sono soprattutto slogan con poca o nulla sostanza, capaci però di mobilitare l’assenso di molti) il cui tratto comune è il ripararsi, dinanzi ai problemi del mondo, in una sorta di caverna, dove ciò che conta è affermare che si ha sempre e comunque ragione, quand’anche i fatti si stiano incaricando di smentirlo. La caverna è quella del proprio Ego, della proiezione della propria persona sul resto della società. Si tratta peraltro di figure di talento.

Non è allora infrequente che gli esponenti di una tale concezione del mondo intraprendano una sorta di lotta continua contro gli altri poteri, convincendo i loro sostenitori della bontà della propria condotta. Ciò che in questi ultimi anni abbiamo imparato a riconoscere e a chiamare con il nome di “populismo”, pur nella sua inadeguatezza terminologica, racchiude il senso di questo percorso. L’attuale presidenza americana, nel suo complesso, ovvero a prescindere dai singoli giudizi sulle scelte effettuate di volta in volta, ne è la quintessenza. Non esiste infatti uno specifico della politica trumpiana che non coincida con la categorizzazione degli imperativi assoluti, i quali vengono usati per dividere le società, rendendo in certi casi accettabile l’altrimenti inaccettabile. Le idee stesse di cooperazione, di condivisione, di mediazione vengono meno. C’è chi ha ricordato il fatto che Donald Trump sia nipote di un uomo che morì al tempo dell’epidemia dell’«influenza spagnola» (1918-1919). Non prima, tuttavia, di avere stipulato un’assicurazione sulla vita, il cui ricavato fu reinvestito in immobili. Si dice che sia stato proprio un tale capitale all’origine della fortuna familiare. Forse anche per questo le pandemie non gli mettono troppa paura, ma al pari di leader come il brasiliano Jair Bolsonaro, deve adesso confrontare la sua visione riduzionista con un sistema istituzionale articolato, che gli ha impedito di portarla fino alle estreme conseguenze. Anche lui ha dovuto infine rassegnarsi a mettere la mascherina. A fronte di una situazione dove la difficile realtà dei fatti si incarica sempre di esercitare una qualche replica. Non ad una specifica posizione politica bensì dinanzi all’esaltazione della sua mancanza.

Fare politica, infatti, implica mediare tra le proprie idee e le necessità, i bisogni, le priorità che le circostanze invece si incaricano di dettare costantemente come faticose priorità ineludibili. L’autentico leader sovranista, oggi, è soprattutto colui che vanta come merito il non avere reali idee sul da farsi, tali perché concretamente praticabili, ossia con costi e ricavi effettivi, quindi identificabili, valutabili e pertanto opzionabili. Ad esse, invece, sostituisce il richiamo alle suggestioni. Chiunque lo contesti, è “ovviamente” parte di una qualche trama complottista. Quand’anche siano le stesse istituzioni con le quali dovrebbe non solo convivere ma condividere aspetti decisivi delle decisioni. Che non intende assumere, beninteso. A meno che non coincidano, come un comodo calco, con l’idea assolutistica che nutre di se stesso. Inutile dire che alla fine di una tale traiettoria si rischia di andare verso il grado zero della decisione politica, dove la tanto decantata partecipazione collettiva, richiamata come fonte esclusiva di legittimazione, si annulla nel vuoto delle prospettive.

 

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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