Hebraica Festività
Rosh Hashanà in quattro storie

Due dal passato e due dal presente

L’espressione ebraica Rosh Hashanà corrisponde letteralmente all’italiano Capodanno. Non “anno nuovo” (come il New Year inglese) o altre possibili diciture; rosh (ראש) significa proprio “testa”. Rosh Hashanà, la testa dell’anno. Rabbi Adin Steinsaltz, tra i più esperti talmudisti viventi, ha scritto che è come se il calendario seguisse la natura del corpo umano. L’inizio dell’anno è fatto per pensare, progettare, immaginare; è il tempo della testa, della mente. Il resto del corpo entra in azione successivamente per realizzare quanto la mente ha pensato. Quali progetti per l’anno in arrivo? Per noi di JoiMag, continuare a scovare, raccontare, diffondere storie coinvolgenti e interessanti. A cominciare da quelle quattro proposte in questa rassegna.

Lo shofar di Auschwitz

Per anni, sono circolati frammenti di testimonianze su come molti ebrei prigionieri dei campi di sterminio riuscirono a conservare qualche aspetto della pratica religiosa, sempre mettendo in pericolo la propria vita. Da questo punto di vista, suonare lo shofar era realisticamente più rischioso di altre azioni. Le testimonianze pervenute su questa pratica sono quindi attendibili?

Di recente, scrive Ralph Blumenthal sul New York Times, si è scoperta una storia che diversi storici trovano credibile. L’ha condivisa Judith Tydor Schwartz, figlia del sopravvissuto ad Auschwitz Chaskel Tydor. Schwartz, ella stessa studiosa di Shoah e Direttrice del Centro di ricerca sulla Shoah all’Università di Bar-Ilan in Israele, ha raccontato che il padre, in quanto prigioniero di lungo corso, era stato “promosso” a controllore di uno dei sottocampi di Auschwitz. Quando nel 1944 arrivò Rosh Hashanà, riuscì a escogitare un modo per permettere a una decina di prigionieri che desideravano formare un minyan e pregare di allontanarsi dalla sorveglianza delle guardie naziste. Quando i prigionieri tornarono, uno di essi gli disse in confidenza che avevano con loro uno shofar e che lo avevano suonato. Tydor chiese conferma al prigioniero che gli era stato indicato come possessore dell’oggetto, ma questi, preso dalla paura di essere denunciato, negò. Tydor non si curò più della faccenda, fino a che non arrivò il gennaio del 1945 e i nazisti, braccati dall’avanzata russa, mobilitarono tutto il campo per la marcia della morte. In quei frangenti, un prigioniero – la cui identità, dice Schwartz, il padre non ha mai voluto rivelare – gli consegnò un oggetto avvolto in uno straccio: “Io sono destinato a morire in questa marcia. Ma se tu vivrai, tieni questo shofar. Dì loro che noi abbiamo suonato lo shofar ad Auschwitz”. Chaskel Tydor sopravvisse alla marcia della morte e fu liberato a Buchenwald l’11 aprile 1945. Conservò quello shofar per tutta la vita. La prima volta che lo suonò, fu su una nave al largo delle coste di Haifa, mentre nell’autunno 1945 si avvicinava a quella che sarebbe diventata la sua patria, la futura Israele. Ora per la prima volta la famiglia ha consentito all’esposizione del prezioso oggetto: è stato installato al Museum of Jewish Heritage di Manhattan, come parte di Auschwitz. Not Long Ago. Not Far Away, una mostra itinerante partita dalla Polonia.

Gli auguri di Gandhi per Rosh Hashanà del 1939

Una lettera di ottant’anni fa della quale non si sapeva niente, la cui scoperta è stata resa nota solo due giorni fa. La scrisse il Mahatma Gandhi ad A.E. Shohet, capo dell’Associazione Sionista di Bombay.

“Caro Shohet, i miei cari auguri per il tuo nuovo anno. Quanto desidero che questo nuovo anno significhi un’era di pace per il tuo popolo afflitto. Tuo, MK Gandhi”. Non era solo Rosh Hashanà: era anche il 1° settembre del 1939, il giorno dell’invasione nazista della Polonia e dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale. La lettera è stata trovata nella Abraham Schwadron Collection conservata nella Biblioteca Nazionale d’Israele. Su The Librarians – il blog della Biblioteca – Zack Rothbart ne ricostruisce la storia.

Shohet era un ebreo indiano, nato a Bombay nella comunità proveniente da Baghdad. Convinto sionista, vedeva nel movimento nazionale ebraico una via per l’unione delle diverse realtà della sua città: la comunità di Baghdad, ricca e insediatasi da tempo, la comunità indiana dei Bene Israel e gli ebrei di provenienza europea. Per tutta la vita, insieme all’amico Hermann Kallenbach, altro fervente sionista, tentò di convincere Gandhi ad assumere una posizione più esplicita a favore della creazione di uno Stato ebraico e contro la Germania nazista. Con Kallenbach in particolare, Gandhi ebbe un rapporto di stretta amicizia – condivisero anche la stessa abitazione in Sud Africa – ma le sue posizioni rimasero ambigue, o quantomeno non fecero mai i conti con la realtà. Che la pratica della non violenza così come era stata ideata nel contesto della liberazione dal colonialismo inglese non potesse applicarsi al contesto europeo e alla Shoah gli sfuggiva irrimediabilmente. A più riprese sostenne che gli ebrei avrebbero dovuto “offrirsi spontaneamente” poiché questo avrebbe generato l’ondata d’indignazione che li avrebbe salvati (un’assurdità soprattutto se si pensa che in molti casi successe proprio così, gli ebrei non opposero resistenza, non tanto per ideologia quanto per impossibilità di difendersi e di conoscere il loro ultimo destino) e credette possibile poter parlare con Hitler in termini razionali. Un’ombra che si rimprovera fino a oggi al padre dell’India moderna, che pure poco prima di essere assassinato definì lo sterminio degli ebrei “il più grande crimine del nostro tempo”.

È tempo di stare uniti: l’appello di Tablet Magazine

“Rosh Hashanà è il momento in cui facciamo il bilancio della nostra vita e rinnoviamo il nostro legame con gli altri e con la comunità. Una delle cose che l’anno appena trascorso ci ha mostrato è che la violenza antisemita ci può trovare ovunque (…). È fondamentale per noi, come individui e come membri di una più ampia comunità, supportare le persone che vengono attaccate per ciò che anche noi siamo: ebrei. Se non lo facciamo, inutile aspettarsi che qualcun altro lo farà”.

Alana Newhouse, Direttrice di Tablet Magazine, apre con queste parole l’editoriale che annuncia la mobilitazione, promossa proprio dal giornale, in tre città diverse, accumunate dall’essere state colpite negli scorsi mesi da attacchi antisemiti: Pittsburgh, Poway e Brooklyn. Continua: “Vogliamo unirci per dimostrare a noi stessi e agli altri che il prossimo anno non permetteremo che le vite ebraiche siano trascurate, lasciate senza protezione o uccise”.

Le tre manifestazioni parallele hanno avuto luogo ieri, mercoledì 25 settembre. Non sono mancati il suono dello shofar e la distribuzione di mele e miele. Le foto sono disponibili nelle pagine dei tre rispettivi eventi su Facebook: Pittsburgh, Poway e Brooklyn.

Ebraismo è giustizia sociale: l’iniziativa del JCore

Il Jewish Council for Racial Equality, organizzazione ebraica inglese attiva dal 1976 sui temi dell’uguaglianza e della lotta al razzismo, da quattro anni in prima linea per il supporto ai rifugiati e ai richiedenti asilo, ha lanciato una nuova iniziativa: una lettera aperta per Rosh Hashanà, il momento in cui “rinnoviamo il nostro impegno per la giustizia sociale”. La lettera, spiegano gli organizzatori, è indirizzata al governo e nasce dall’insoddisfazione verso le istituzioni che hanno lasciato sola la società civile, non facendo nulla per risolvere la crisi dei rifugiati né per combattere sospetto e pregiudizio. In particolare, si tratta di una richiesta articolata in sei punti: 1) concedere ai richiedenti asilo il permesso di lavoro; 2) riunificare le famiglie di rifugiati; 3) creare un programma per l’integrazione dei minori non accompagnati e dei giovani 4) proteggere la Race Disparity Unit, l’ufficio governativo di analisi dati sulla base delle esperienze di persone di diverso background; 5) concedere dei fondi per l’edificazione di un memoriale per le vittime della tratta in mare; 6) assicurarsi che tutti i partiti si dotino di procedure chiare e trasparenti per combattere ogni forza di discriminazione, inclusi l’antisemitismo, l’islamofobia e il razzismo contro i neri.

La lettera si prefigge l’obiettivo di raggiungere il migliaio di firme entro Rosh Hashanà: chi volesse firmarla oppure conoscere meglio il lavoro del JCore la può trovare qui.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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