Hebraica Nizozot/Scintille
Rav Benamozegh, ovvero il coraggio della teologia ebraica

RItratto di uno studioso geniale e anticonformista a 200 anni dalla sua nascita

Sul rabbino livornese di origini marocchine Elia Benamozegh (o Ben Amozegh, come a volte si trova scritto) persiste nel mondo ebraico italiano un certo disagio. I più aperti alla modernità ne contestano l’eccessivo tradizionalismo nella prassi religiosa; e infatti fu un severo avversario dell’haskalà di Mendelssohn. I più tradizionalisti lo vorrebbero citare solo quando scrive in ebraico, come nei due estesi commenti alla Torà, il Panim la-Torà del 1854 e Em la-Miqrà del 1863, e nel responso contro la cremazione dei defunti, e si spingono a pensare che i suoi scritti in francese e in italiano siano mere ‘opere apologetiche’; alcuni credono persino che “il concentrarsi sull’universalismo e il rapporto con il cristianesimo” di quegli scritti limiterebbe la comprensione di questo maestro “deformandone la figura” (e taccio volutamente l’autore del virgolettato). Infine, molto ebraismo italiano, proprio in quanto radicato in una lunga tradizione di equilibrio tra osservanza e razionalismo (nella forma di studi ‘profani’ e attività professionali), non sa come muoversi su testi che attingono a piene mani alla qabbalà zohariana, di cui il rav livornese fu sempre cultore e strenuo difensore (anche contro altri maestri italiani suoi contemporanei, come Shmuel David Luzzatto di Padova, lo Shadal). A duecento anni esatti dalla sua nascita (24 aprile 1923-6 febbraio 1900), la domanda ‘chi fu davvero Elia Benamozegh?’ resta più che mai aperta e intrigante.

Tra modernisti e tradizionalisti non intendo ovviamente schierarmi e scelgo la sana via media dell’equilibrio italico sopramenzionato. Tuttavia credo importante non farsi guidare da letture ideologiche, anche e soprattutto quando l’ideologia è di marca religiosa. Le opere pubblicate in vita da rav Benamozegh parlano per se stesse, seppur in lingue diverse come detto. Del resto grandi maestri (di ieri e di oggi) scrivevano in due lingue: ebraico e arabo il Maimonide, ebraico e inglese rav Soloveitchik, e nessuno si sogna di sminuire il valore dei testi in arabo dell’uno o in inglese dell’altro. Ora, è un fatto che la vena apologetica del Benamozegh lo abbia spinto a occuparsi di rapporti tra ebraismo e cristianesimo – più che tra ebrei e cristiani – in modo continuo e sistematico, e a pubblicare molto su questa delicata materia. Con due sottolineature: che ‘apologetica’, nel XIX secolo, era un sostantivo/aggettivo assai nobile, al punto che quando il rav intraprese un vasto progetto didattico-manualistico (mai completato) per il proprio Collegio rabbinico a Livorno lo intitolò Teologia dogmatica e apologetica, tre termini che oggi farebbero arricciare il naso a molti ebrei, non solo in Italia. Seconda sottolineatura: non v’è traccia in questi testi che lo scopo, per cui vennero scritti, sia stato quello del ‘dialogo interreligioso’ tra le due fedi; anzi, sarebbe del tutto anacronistico il sostenerlo (tale dialogo è una novità della seconda metà del Novecento, e non è qui il luogo per mostarne le ragioni). Lo scopo del lavoro scientifico-editoriale del Benamozegh era davvero ‘apologetico’: serviva, etimologicamente, a difendere la tradizione ebraica – segnatamente farisaico-rabbinica – dal cristiano disprezzo (avrebbe detto Jules Isaac) e a riscattarla dallo status di fede subalterna, se non obsoleta, deformata (questa volta sì) dalla visione che ne dava la teologia della chiesa.

Nello spirito scientifico e ottimistico del suo secolo, Benamozegh pensava che una serrata comparazione delle fonti avrebbe potuto fare giustizia di tanti pregiudizi antiebraici di matrice cristiana; di più, avrebbe indotto gli studiosi del cristianesimo a riconoscere il grande debito contratto dalla loro religione nei confronti del giudaismo, quello farisaico-rabbinico appunto, e non solo dell’ebraismo biblico. In ciò, di fatto, egli si avvicinò allo spirito della Wissenchaft des Judentums assai più di quanto che avrebbe immaginato e ammesso, andando forse più lontano di Shadal che con gli esponenti di quella ‘scienza delle fonti ebraiche’ corrispose per tutta una vita. La grande differenza sta nel fatto che Shadal guardava principalmente al mondo erudito degli ashkenaziti (tedesco e anglosassone), guardava cioè a Berlino, mentre Benamozegh guardava a Parigi, che stava diventando altrettanto importante per gli studi religionistici. Si pensi a Ernest Renan, alla cui opera (invisa ai cattolici) il rabbino di Livorno attinse a piene mani (anche per i suoi scritti in ebraico!); ma si pensi anche ad Adolphe Frank, studioso di mistica ebraica che nel 1843 pubblicò un testo sulla qabbalà definita come “la filosofia religiosa degli ebrei” che ebbe un grande impatto – ad oggi inesplorato – sul rabbino livornese. Nella sua biografia, di per sé poco significativa, leggiamo che il rav si avventurò persino da Livorno a Pisa per ascoltare e incontrare Frank… Ironia a parte, esisteva pure una corrente francese di modernizzazione del giudaismo, e a questa Benamozegh non fu certo insensibile. Tra l’altro, egli rispose e partecipò a ben due concorsi dell’Alliance Israélite Universelle, uno sul tema della guerra e della pace (con un prezioso manoscritto andato perduto e che il rav non riuscì a recuperare) e uno sul confronto tra “morale ebraica e morale cristiana” (1866-67), saggio che in seguito pubblicò e venne tradotto oltre un secolo dopo in italiano da Elio Piattelli, con presentazione di rav Elio Toaff, dal benemerito Carucci nel 1977 (e non credo che rav Toaff volesse ‘deformare la figura’ del suo maestro e conterraneo elogiando e incoraggiando tale pubblicazione).

Ora, se guardiamo questi testi, e le opere quasi coeve intitolate Storia degli esseni (1865) e le Origini dei dogmi cristiani (1863), e ancora il testo Israele e umanità dato alle stampe nel 1885, pensato come introduzione a una più vasta opera sul tema, quell’Israel et l’humanitè che vedrà la luce postuma (in francese, a Parigi nel 1914, a cura di Aimé Pallière), si comprenderà che sono proprio l’universalismo e il confronto con il cristianesimo ad essere al centro dell’elaborazione teologica di rav Benamozegh, ed è su questi temi che egli fu innovativo e audace, anche a rischio di errori storici, e che fu avanti di quasi duecento anni rispetto al suo tempo. Chi vede in Israel et l’humanitè un’opera del cattolico – o noachide? – Pallière (in quanto editor delle quasi duemila pagine manoscritte in francese lasciate dal rav) e non del Benamozegh stesso sembra ignorare i contenuti delle opere sopracitate, che il rav scrisse di suo pugno e di sua mano pubblicò, essendo tipografo di professione. Non sprecherei l’aggettivo profetico – tutti i benè Israel sono profeti, o dovrebbero esserlo, per il solo fatto di testimoniare la Torà di Moshè rabbenu –; ma che Elia Benamozegh abbia offerto riflessioni e temi che sono al centro dell’agenda del dialogo interreligioso di oggi è evidente a tutti.

By the way, Benamozegh non ebbe alcuna remora – al contrario di quel che molti paventano ancora oggi – ad affrontare il cristianesimo sul suo stesso terreno, quello della teologia, a partire dagli scritti neo-testamentari che il rav mostra di aver approfondito. Ciò fece perché sul piano intellettuale non si sentiva né minacciato né intimidito dal cristianesimo o dalla chiesa cattolica; era inoltre convinto, sulla base dei suoi studi, che quanto resta valido nel cristianesimo viene dall’ebraismo e non dalla filosofia greca, e che una volta corretto dai suoi errori dottrinali (incarnazionismo, triteismo e abolizione della Legge) il cristianesimo costituisce quel noachismo che fu pensato dai maestri del Talmud come la religione universale dei non ebrei. Siamo ovviamente nel campo dell’aggadà, non dell’halakhà; vige dunque in materia libertà di opinioni e ampio contraddittorio. Innegabile però il genio di un maestro che continua a essere studiato in Israele come in America, forse lì più che da noi (non è un caso che l’università israeliana di Bar Ilan gli abbia dedicato un grande convegno pochi mesi fa, con studiosi provenienti dall’ebraismo mondiale). Chi volesse accostarsi al pensiero di rav Elia Benamozegh trova oggi in libreria due suoi scritti fondamentali, riuniti in un unico volume: Il mio credo. Israele e umanità, da poco editi, a cura di Marco Cassuto Morselli, dall’editore Castelvecchi (pp.104, euro 13.50).

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


2 Commenti:

  1. Rav Benamozeg era soprattutto un livornese e se non si comprende la storia unica di Livorno e della sua comunità ebraica non si va molto lontano.


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